La pausa forzata causa coronavirus ferma i nostri orologi, svuota i calendari, schiaccia la nostra vita in un eterno presente. In una situazione come questa, in ambito sportivo la cronaca lascia spazio all’amarcord, alla rievocazione sulla base di anniversari (il cinquantenario dello scudetto del Cagliari, lo scandalo calcioscommesse del 1980, ecc.), e ai bilanci consuntivi sulla stagione che (non) stiamo vivendo. È chiaro che l’interruzione ci ha privato della parte più succosa dell’anno, quella dei verdetti, quella in cui, secondo i ripetuti adagi degli allenatori, si misura realmente il rendimento di una squadra. Vale tuttavia la pena di esprimere un giudizio, per quanto parziale, su quanto abbiamo visto finora della Juventus di Maurizio Sarri e su quello che potremo attenderci dai bianconeri alla ripresa, sempre che essa non si riveli, per cause di forza maggiore, il sogno irrealizzato di una notte di mezza estate.

Un aquilone nel silenzio
L’ultima immagine stampata negli occhi del tifoso juventino è associata ad un ricordo assai lieto: la cavalcata inesorabile di Paulo Dybala verso un 2-0 ai mal sopportati cugini nerazzurri. Un saggio di classe cristallina, una sfilata sulla passerella erbosa dello Stadium, un lampo di bellezza in mezzo ad una notte surreale, segnata dal silenzio delle porte chiuse; in quella circostanza la Joya è parsa più che mai simile – ci perdonino la lesa maestà - a quel Diego Maradona che nel pomeriggio dello stillicidio inglese in salsa messicana cui il radiocronista uruguagio Victor Hugo Morales associò l’espressionistica etichetta di barillete cosmico, aquilone cosmico. Si sono sentiti molti commenti lusinghieri sulla prestazione fornita dalla Juventus in quell’ormai lontanissima domenica sera di marzo, ma a dire il vero, secondo il parere del sottoscritto, la vittoria, seppur netta, è dipesa più dall’insipienza di un’avversaria flaccida e senza riferimenti avanzati, che da una reale dimostrazione di forza della capolista. Prima dell’1-0 di Ramsey si è vista la solita Juve di quest’annata, impegnata in un palleggio perlopiù inefficace, che si è guadagnata poche occasioni da gol e che ha anche sofferto più del dovuto in occasione degli sparuti attacchi interisti. D’altronde, era lecito attendersi che gli obbrobri dei primi 75 minuti contro il Lione non fossero una casualità, ma la spia di qualcosa che non andasse, al di là delle vittorie, del primato in classifica, della quasi raggiunta finale di Coppa Italia e di una qualificazione ai quarti di Champions ancora tutta da giocarsi. E non è stata nemmeno la prima: si può dire che il grigiore di Lione sia stato la regola, e non l’eccezione, di quest’annata.

Una gestione insolita
Vale la pena di partire dall’inizio. Al di là della fondatezza delle voci su Guardiola o sul ritorno di Conte, che hanno comunque contribuito a far apparire la scelta del nuovo allenatore meno condivisa di quanto effettivamente lo sia stata, e a intiepidire ulteriormente l’approdo sul pianeta-Juve di Sarri, le premesse non sono state le migliori, e il riferimento è alla conduzione del mercato estivo. Senza nemmeno addentrarsi nel merito delle questioni tecniche, è stata la gestione complessiva a destare più di qualche perplessità. Tra cessioni saltate sul rotto della cuffia, valutazioni cambiate nel giro di poche settimane, la partecipazione ad aste non sempre andate a buon fine, l’approccio della società alle compravendite è parso meno saldo e sicuro del solito. Che sia dipeso dalle difficoltà di Paratici a declinare sul campo il doppio ruolo – quello usuale di direttore sportivo e quello inedito di manager a tutto tondo, ereditato da Beppe Marotta? Probabile. Sta di fatto che la stagione è iniziata con una rosa eccessivamente larga, composta da giocatori che erano stati sul piede d’addio nei mesi o giorni precedenti – Dybala, Khedira, Higuain, Matuidi alcuni dei nomi – e altri destinati a rimanere di fatto fuori rosa fino alla cessione nel mercato invernale – Mandzukic (nemmeno una presenza in stagione), Emre Can. D’altro canto, all’abbondanza in alcuni reparti hanno fatto da contraltare i buchi veri e propri lasciati in altri, come nella batteria dei terzini. Insomma, qualcosa che in otto anni difficilmente si era verificato.

Risultati ingannevoli
La squadra ha palesato limiti e problematiche di varia sorta già dalla prima partita al Tardini di Parma. L’inizio di stagione è stato inoltre costellato da altre difficoltà, determinate da eventi sfortunati, come la rottura del crociato di capitan Chiellini e la polmonite che ha tenuto Sarri fuori gioco – e lontano dalla squadra – per un mese. Eppure, le vittorie non mancavano, talvolta ottenute con prestazioni più brillanti – Napoli allo Stadium, Inter a San Siro – ma più spesso in maniera quantomeno immeritata – Bologna, Genoa, Atalanta, Verona in casa. Questo è stato – paradossalmente, e alla lunga – un elemento di debolezza: la partenza disastrosa – appena 12 punti nelle 10 giornate iniziali – della stagione 2015/2016 (quella post-finale di Berlino) aveva ricompattato la squadra, che dopo la celebre debacle col Sassuolo aveva infilato una sequela inarrestabile di successi e in maggio si era appuntata sul petto uno scudetto le cui speranze sembravano essere state spazzate via dal il vento autunnale. I successi in serie di questo inizio di stagione hanno invece nascosto la polvere sotto al tappeto, hanno ritardato la risoluzione di problemi che sono poi emersi in tutta la loro urgenza nelle due partite perse con la Lazio (campionato e Supercoppa) e soprattutto in prestazioni di spessore ancor più misero come quella del San Paolo o quella del Bentegodi, o, ancora, come quella di Lione, che hanno forse incrinato le ordinate certezze del gruppo.

Per un giudizio complessivo
In questo senso, la vittoria nel Derby d’Italia ha certamente garantito una boccata d’ossigeno, e potrà ora essere un mattoncino su cui ricostruire una stagione pericolosamente in bilico; la stessa pausa potrebbe far guadagnare, in caso di una futura ripresa, nuovi stimoli e più carburante. Quel carburante che potrebbe invece venire a mancare alla fuoriserie di Simone Inzaghi: la Lazio procedeva col vento in poppa, prima che il campionato venisse sospeso, l’interruzione forzata potrebbe mettere i bastoni fra le ruote, e l’asciuttezza della rosa a disposizione del tecnico piacentino potrebbe pesare, se si giocasse ogni tre giorni. Queste riflessioni indurrebbero all’ottimismo, ma in generale ci troviamo ad affermare che il giudizio complessivo sulla prima annata di Maurizio Sarri in quel di Torino non può essere di segno positivo, almeno per ora: ed è molto difficile, pure in circostanze eccezionali come quelle di quest’anno, che una stagione nata tonda muoia quadrata, e il freschissimo caso-Higuain ne è l’ennesima dimostrazione. Personalmente, non credo all’esistenza di un partito dei giochisti contrapposto a quello dei resultadisti: ogni allenatore ha come stella polare la vittoria, e per raggiungerla adopera le modalità che ritiene più efficaci. Pertanto, non ritenevo né possibile né necessario che il pantagruelico Napoli di Sarri evolvesse in una creatura clonata a sua immagine e somiglianza nel laboratorio della Continassa. Speravo tuttavia che l’avvento del tecnico di Bagnoli contribuisse a migliorare alcune sfumature del gioco bianconero senza spegnere quelle caratteristiche che avevano determinato i successi dell’era contiana e di quella allegriana, vale a dire la tigna, l’esercizio dello strapotere fisico, l’impeccabile interpretazione dei match. E finora è andata esattamente all’opposto.
Come si è cercato di illustrare, le responsabilità non vanno addossate al solo Sarri; non mi stupirebbe se la società in estate applicasse dei cospicui correttivi, nel parco giocatori, nella parte tecnica, e anche in quella gestionale.