Santino ha gli occhi chiari ed un naso importante su un viso lungo ed affilato, il cappello nero con la tesa che scende sugli occhi e copre totalmente la fronte bianca, sempre sulla testa. È un uomo alto e molto magro con le mani grandi, dure e nodose, ha spesso un’espressione seria, è diretto e silenzioso come molti tra quelli che hanno passato la loro vita in campagna spaccandosi la schiena nei campi o seduti su uno sgabello a mungere Elisa, la sua unica mucca.

Nella sua casa in fondo al cortile ha una piccola televisione in bianco e nero che non accende mai. Tra l’altro prende solo il secondo canale, il primo non si vede, a volte si sente la voce e basta, ma l’immagine è solo nebbia o puntini con quel fastidioso rumore di frequenze impazzite che sembrano zanzare. Non importa, la sua vita di pensionato ora è così lenta che anche sapere che il generale Dalla Chiesa sta condannando a morte certa se stesso e sua moglie in una lotta impari alla mafia non gli cambierebbe una virgola, anzi non muoverebbe una mosca dall’enorme stanzone con le pareti spesse che ospita la televisione ed una di quelle stufe in ghisa che bruciano legna tutto l’inverno per scaldare la casa. Ma è estate piena, c’è un caldo torrido e la stufa è spenta, la ghisa è fredda.

La sua è una vecchia casa tipica della bassa bergamasca con la scala all’esterno che porta alla “losa”, una lingua di cemento messo giù in più volte crea una specie di corte lunga e stretta, le case sulla destra e i fienili e le stalle sulla sinistra, in fondo un cancello arrugginito e instabile c’è solo la struttura esterna e due liste incrociate che vanno da lato a lato, in mezzo è fatto di quel filo di ferro piegato e ricoperto di gomma intrecciato a rombi, un catenaccio floscio lo tiene chiuso, lì dentro non abita più nessuno da quando il comune ha costruito le case nuove fuori dal paese e loro si sono trasferiti là, ogni tanto Mario viene ad ammazzare un coniglio e da un po’ di giorni a questa parte trova il cancello sempre fuori asse, chiuso ma sempre mezzo storto.
Mario in paese ha un soprannome, lo hanno tutti, anche Santino, purtroppo non riesco proprio a ricordarlo, ricordo solo che quando entrava al bar “Mago” lo chiamavano per nome “hantììì” con l’h che non va aspirata, piuttosto enfatizzando le “i” alla fine.

Nemmeno al mago non c’erano le notizie su Dalla Chiesa, però negli orari delle partite le strade del paese erano deserte e, seppur a Santino di calcio non interessasse davvero nulla, entrando non avrebbe sentito il solito vociare di carte ingrossate e piegate su se stesse quasi cilindriche che sbattevano sul tavolo tra i bicchieri pieni a metà, e nemmeno qualcuno che agitasse le mani uno davanti all’altro nei gesti tipici della “morra”, poteva solo sentire la voce di Martellini che arrivava da lontano, più lontano del televisore stesso appoggiato in alto sul frigorifero delle bottiglie di spuma. Lui, Nando, sicuro era in Spagna allo stadio, ma la sua voce sembrava arrivare da molto più lontano, se cercate una partita del Mundial, fateci caso sembra quasi che immagini e voce siano disgiunte, un po’ come guardare il video ed ascoltare la cronaca per radio, in fondo la tecnica era un po’ quella.

Ma perché anche il bar è impazzito, tutti gli amici seduti ai loro tavoli girati verso la tv, silenziosi, tutti con i loro cappelli sulla fronte a coprire gli occhi e quelle espressioni dure come la sua che in quei giorni sembravano leggermente più addolcite, c’erano anche piccoli sorrisi su quelle facce di terracotta segnate dagli anni e dal sole. Forse anche per questo Santino era diverso e si sentiva diverso da loro, lui non sapeva nemmeno chi fosse Paolo Rossi e non gli interessava nemmeno, consumava il suo bicchierino dispiaciuto per non aver potuto scambiare nemmeno due parole con nessuno, nessuno lo aveva nemmeno salutato alla solita maniera quando era entrato, solo qualche furtivo cenno del capo sotto il cappello riportando subito l’attenzione sopra il frigo lungo con le spume dentro.

E allora tornava a casa con le mani in tasca e il suo passo lungo ed incerto che ondeggiava a destra e sinistra, non ci tornava volentieri perché lì in quei giorni c’erano sua figlia ed i suoi nipoti, tre schegge impazzite di poco più di 10 anni che passavano il pomeriggio a prendere a pallonate il cancello di Mario, come fosse possibile che questi piccoli diavoli tirassero così forte da inclinare il vecchio cancello arrugginito per lui era un mistero,  ogni tanto usciva e stroncava le esultanze con un grido in dialetto soffiato, quasi sussurrato: “faa ssiiitooo” (state zitti), e poi si arrabbiava con sua figlia perché era andata a rovinargli anche quell’estate, lo faceva ogni anno, ad agosto portava i diavoli al mare ma appena finita la scuola li portava dal nonno, a lei piaceva tornare al suo paese quando poteva, faceva piacere anche a lui vederli, ma solo quando arrivavano poi diventava tutto troppo impegnativo per la sua vita lenta.

Ma quell’estate fu peggiore di tutte le altre, sebbene non fosse iniziata con alcun segnale che ne prospettasse l’evoluzione.
La nazionale di Bearzot di stanza a Vigo, un porto commerciale nel sud ovest della Galizia quasi al confine con il Portogallo, non era partita benissimo. Solo 3 pareggi nelle partite del girone, senza reti contro la Polonia e due provvidenziali uno a uno contro Camerun e Perù. Pareggi tanto deludenti quanto appunto provvidenziali, perché solo la differenza reti ed il gol in più segnato da “Ciccio” Graziani proprio al Camerun ci aveva permesso di passare al secondo turno del Mundial alle spalle della sorprendente Polonia di Boniek e ai danni di quella che solo pochi anni dopo, nel mondiale italiano, sarebbe diventata una delle più grandi sorprese del panorama mondiale, il Camerun di Thomas N’Kono e Roger Milla, capace di battere nientemeno che l’Argentina campione uscente di Re Diego, per terminare la sua corsa solo ai quarti in un’avvincente partita persa contro la perfida Albione, ma questa non è la loro storia, troppo presto per la favola dei leoni d’Africa; quella del 1982 era scritto nel destino dovesse essere l’estate di un ragazzo di Prato, delle sofferenze di un anziano uomo bergamasco alle prese con la passione irrefrenabile dei suoi piccoli nipoti cittadini e, ahimè, purtroppo anche l’ultima della vita del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Il secondo turno si prospettava improbo, non aver vinto il girone aveva relegato l’Italia in un secondo gironcino, in questa strana formula del mondiale spagnolo, insieme all’Argentina campione uscente rinforzata dall’astro nascente Diego Maradona, e da una delle nazionali verdeoro più forti di sempre, il Brasile di Zico e Falcao.
Eppure, il giorno di Italia-Argentina c’era in campo una squadra differente da quella dei 3 pareggi nell'Estadio Balaídos di Vigo, forse sarà stato per il clima più caldo di Barcellona ed il profumo familiare del Mediterraneo rispetto alla brezza dell’oceano Atlantico che soffia sulla Galizia, ma quel giorno l’Estadio de Sarriá sarebbe stato testimone dell’inizio di qualcosa di magico, la vittoria sull’Argentina di Maradona limitato con le buone e con le cattive da un italiano nato a Tripoli, alimentava delle seppur flebili speranze per lo scontro più epico che qualunque persona della mia generazione avesse mai vissuto e che sarebbe resistito per tanti anni a venire, anzi... sono sicuro che è ancora negli occhi di tutti coloro che lo abbiano vissuto, in banco e nero o a colori.
Per me il ricordo è in bianco e nero, ed è già tanto essere riuscito a viverlo.
Santino non ne voleva sapere di vivere l’atmosfera di quell’estate nel bar Mago dentro casa sua, ma grazie a Dio sua figlia era riuscita a convincerlo, quindi lui aveva inforcato la sua bicicletta ed era partito per le campagne, nel suo stanzone con la stufa in ghisa 3 bambini seduti sulle sue sedie di legno erano disposti a semicerchio davanti al suo piccolo schermo curvo, non nell’accezione dei TV 4K di oggi che avvolgono lo spettatore moderno, nel senso meno piacevole di un vetro sporgente verso l’esterno, non direi convesso ma il senso è quello.

La voce di Martellini lì dentro sembrava arrivare da ancora più lontano, ma quel giorno era destinata a raccontare la nascita di una stella che stava per regalare agli italiani un sogno meraviglioso, un sogno atteso 44 anni.
Pablito esplose all’improvviso, dopo 4 partite anonime decise che era il caso di mettere a referto 3 gol in una volta sola e aveva atteso la squadra più forte di tutti per presentarsi, quel giorno fu senza ritegno, segnò di testa, da fuori e di rapina dentro l’area sfruttando le sue doti migliori e approfittando anche dell’unico punto davvero debole di quel Brasile, Valdir Peres, mentre nella porta opposta il suo grande capitano, da sempre poco scenografico ed appariscente, tanto fuori quanto in campo, stava per mostrare al mondo intero il perché fosse da sempre considerato uno dei migliori portieri dell’epoca, lanciandosi, già quarantenne, per schiacciare a terra un maligno colpo di testa di Oscar sbucatogli davanti all’improvviso. Un attimo indimenticabile per tutti, per fortuna l’arbitro era molto vicino e confermò il miracoloso salvataggio di Dino Zoff che si alzò in piedi stringendo la palla in mano: “mi spiace ragazzi, siete sicuramente i più forti, ma io oggi io sono qui perché è il giorno del destino, il giorno in cui nasce la stella di Paolo Rossi, scusatemi ma non potevo proprio lasciarvi segnare”.

Era il minuto 89' di una partita meravigliosa, Santino pedalava in campagna, nel giro di pochi minuti i suoi nipoti avrebbero piegato di nuovo il cancello di Mario e messo in subbuglio tutta la corte, ma quel giorno le strade avevano un brusio diverso anche in quel piccolo paese della bassa bergamasca, anche nella strada che in quel quadrilatero di case antiche si affacciava sul bar Mago.
Purtroppo sia la semifinale che la finale passarono ovviamente sul primo canale, impossibile quindi da vedere su una TV che trasmetteva solo il secondo, un modo comunque mamma lo trovò, portando i 3 piccoli indiavolati a casa di un cugino dall’altro lato del paese ma tanto la storia era già scritta, la Polonia sofferta 20 giorni prima in Galizia, fu abbattuta dall’aria del mediterraneo che soffiava sul nuovo stadio del Barcellona un maestoso impianto di soli 25 anni dove i polacchi finirono in ginocchio come lo stesso Pablito mentre spingeva di testa in porta un cross del meraviglioso Bruno Conti che di quella palla anni dopo disse, sopra c’era scritto “basta spingere”.
Cinque gol in due partite, come un fulmine a ciel sereno, il sesto lo segnò ai tedeschi la sera di quel 3-1 una volta di più senza storia, era l’11 luglio di una torrida ed indimenticabile estate italiana durante la quale ho vissuto momenti di incredibile gioia sportiva in un paese che, ironia della sorte, si chiama Calcio, potete cercarlo sulle cartine, io lo avevo nel destino il giorno che sono nato.

Questa è la storia di tanti bambini che quell’estate hanno imparato a memoria l’inno di Mameli, è la storia di Pablito che in quel luglio del 1982 è diventato immortale, questa è la storia di una generazione che un giorno dopo l’altro vede andar via, in ordinato silenzio ed uno alla volta le figure che hanno scritto pagine di storia sportiva, politica o sociale, o anche figure familiari, oggi è il giorno di Paolo Rossi, ma lui come già Diego o come il Generale Dalla Chiesa nella memoria di chi resta ci saranno sempre.  

Perdonerete eventuali inesattezze o errori, qui dentro non c’è una capillare ricerca storica, questo racconto è basato esclusivamente sui ricordi e le emozioni di chi scrive che, mi perdonerete, non si è nemmeno preso la briga di rileggerlo, è qui così come è uscito, in un fiume disordinato di ricordi in un altro giorno triste di quest’anno avaro di gioie, ma davvero prodigo di sofferenze e dispiaceri.

EPILOGO
Esterno, sole alto, c’è una grossa Fiat dentro il cortile proprio davanti al cancello di Mario: “Meno male che ve ne andate, non ne potevo più”
“Si nonno, lo sappiamo ce lo hai detto tante volte, l’unica cosa che non abbiamo capito è perché la sera appena ci mettevamo a letto uscissi a sistemare il cancello di Mario, siamo piccoli, certe cose non riusciamo proprio a spiegarcele”.

Santino ormai pedala sulla sua vecchia biciletta sgangherata da tanti anni in un’assolata strada di campagna, oggi lungo il percorso ha incontrato un piccolo ragazzo toscano che camminava con un “tango” sotto braccio ed un enorme numero 20 bianco sulla schiena, un ragazzo magro con un sorriso sincero che lui non aveva mai visto perché nel 1982 si era ostinato a restare nel suo mondo lento.
“Ah... tu sei quello che mi fece passare quella terribile estate nel 1982? Grazie Paolo, è stata davvero un’estate meravigliosa, mi spiace che tu sia salito qui così presto ma lì sotto ti ricorderanno in tanti, per sempre.”