In quattro anni di Scienze Politiche non ricordo di aver mai sentito il nome di Thomas Sankara (militare, politico e rivoluzionario del Burkina Faso; 1949-1987), il Che africano. “Sino a quando i leoni non avranno i loro propri storici, i racconti di caccia continueranno a glorificare il cacciatore.”, dice un vecchio proverbio africano. Ribelle, disubbidiente, sognatore, Sankara si oppose, appunto, contro la realtà che ritraeva un continente sfruttato, saccheggiato, spogliato, sempre soggetto ai disegni di un nord che lo spartiva, unilateralmente, come se fosse una torta, tracciando linee con una squadra comodamente seduto da un ufficio a Berlino; quella di una terra in cui molte, molte, generazioni hanno vissuto sotto il potere dell'uomo occidentale che, con il pretesto dell'evangelizzazione, sottomise il nativo nella sua stessa casa e lo declassò al ruolo di servitore.

Il carismatico leader africano raggiunse la presidenza del Burkina Faso, a seguito di un colpo di stato, a soli 33 anni, nel 1983, prima che il paese fosse ribattezzato così. Fu lui, infatti, a cambiare il vecchio nome coloniale del territorio (Haute-Volta, tradotto Alto Volta), precedentemente diretto dai francesi, da quello attuale che, nella lingua locale, significa terra di tutti gli uomini. Nell'agosto 1984, il Burkina Faso, uno dei paesi più poveri del mondo, aveva sette milioni di abitanti, di cui oltre l'80% erano contadini. L'analfabetismo era quasi del 100% e l'aspettativa di vita era di circa 40 anni. Contro questo doloroso panorama, Sankara, un leader rivoluzionario che ha cambiato il nome del Paese come simbolo di trasformazione sociale, si è opposto. Sankara fu un leader politico, orgoglioso campione dell'antimperialismo, che ha sostenuto il rispetto per l'ambiente, i diritti delle donne, la energica condanna della povertà, l'autosufficienza, il panafricanismo (movimento tendente a realizzare l’unità politica del continente africano, contro l’emarginazione di tutto ciò che riguarda l'Africa nell'immaginario collettivo occidentale). Ha fatto appello alla decolonizzazione del pensiero e il raggiungimento della felicità è stato un concetto ricorrente nei suoi discorsi. Ha servito da “presidente” un paese povero, guidando con l'esempio, e ha agito con dignità, in contrapposizione al culto della personalità.

Sankara – sempre indossando un berretto rosso – al raggiungimento della presidenza, vendette tutte le limousine dello stato e le sostituì con auto modeste. Aveva un modo di vivere ascetico, non possedeva quasi nulla, e chiese ai suoi ministri di condurre lo stesso semplice stile di vita che aveva imposto a se stesso. Iniziò un'autentica rivoluzione in Burkina Faso: nazionalizzò le terre e le dette ai contadini, nazionalizzò le ricche risorse minerarie del paese e stimolò la crescita dei diritti delle donne come nessuno aveva mai fatto in Africa. “Non c'è vera rivoluzione sociale senza la liberazione delle Donne”, dichiarò una volta, vietando i matrimoni forzati, le mutilazioni genitali femminili e la poligamia e iniziando a collocare le donne nelle posizioni più alte dello Stato, lanciando campagne di alfabetizzazione e vaccinazione. Infine sfidò le grandi organizzazioni finanziarie globali, promuovendo in tutto il continente l’opposizione al pagamento del debito e l’autosufficienza per evitare di vivere con aiuti esteri.

Proprio il suo rifiuto di pagare il debito estero di epoca coloniale, insieme al tentativo di rendere il Burkina autosufficiente e libero da importazioni forzate, attirò le antipatie di diversi paesi occidentali. Sankara, convinto delle potenzialità del paese, promuoveva una campagna contro l’imperialismo e il neocolonialismo. Bisognava produrre da soli i generi necessari alla popolazione, con la creazione di un mercato interno ed evitare di sottostare ai voleri di paesi esteri. Inseguendo un mondo molto più equo e libero, sollevandosi contro gli abusi coloniali, contro il dominio dell'imperialismo nel continente, consapevole, come dice un altro detto africano, che “l'unione del gregge costringe il leone a sdraiarsi a stomaco vuoto”, divenne un elemento troppo scomodo per l'Occidente, che desiderava ardentemente continuare a governare il paese dall'ombra, estendendo la sua egemonia nel continente e ignorando i grandi progressi che stava vivendo il Burkina Faso. Con il suo discorso radicale fatto alle Nazioni Unite aveva affrontato potenti forze economiche e politiche che alla fine lo hanno ucciso. L'imperialismo che ha combattuto così tanto lo ha portato alla tomba. L'aveva predetto più volte. Nel 1987, durante una riunione dell'Organizzazione per l'unità africana, ad Addis Abeba, tenne un discorso ai leader africani in cui chiedeva l'unità di tutte le nazioni del continente per opporsi al pagamento del debito estero. Sankara sosteneva che gli sfruttatori, i ricchi, non potevano chiedere soldi agli sfruttati, ai poveri. Inoltre ribadiva il concetto dicendo che il loro mercato doveva appartenere agli africani. “Dobbiamo vivere in modo africano. È l'unico modo di vivere in libertà, con dignità. Patria o morte. Vinceremo!”

Tre mesi dopo era già morto. Sankara, che, nonostante avesse intuito la falce appena dietro il collo, preferì la morte a una guerra civile che avrebbe distrutto il paese, era sempre stato riluttante a usare le armi per risolvere le differenze politiche. Fu ucciso, insieme ad altre persone, il 15 ottobre 1987 (sei giorni dopo il ventesimo anniversario della morte di Che Guevara), durante un colpo di Stato promosso dal proprio vice, Blaise Compaoré, con la complicità di stati occidentali. Rapidamente furono revocate molte delle politiche di Thomas Sankara e fu fatto di tutto per cancellare la sua memoria. Il suo corpo fu smembrato e sepolto in una tomba anonima, ma ciononostante le sue idee sono rimaste eterno e immortali. I suoi sogni di libertà, di emancipazione, di democrazia, trascendevano la sua vita. Si spense troppo presto, a 37 anni. Perché, come disse: “Sebbene i rivoluzionari possano essere uccisi, non possono mai uccidere le loro idee”.

“Io, Sankara, morirò. Ciò che deve rimanere è il popolo”, ha affermato il leader politico africano in un'altra occasione. Le persone sono rimaste, certamente, ma anche la sua eredità, la sua memoria imperitura. Precisamente, con l'illusione di onorare, nobilitare, il ricordo del Burkinese, un tifoso di calcio, due anni fa, ha creato, nella città di Viareggio, a soli 30 chilometri da Pisa, una modesta squadra di calcio autogestita, che cerca di sfruttare il grande potenziale dello sport come mezzo di comunicazione per combattere il razzismo e l'intolleranza, così presente in un calcio senza cuore. Formata allo stesso tempo da rifugiati in cerca di asilo e italiani con l'intenzione di favorire l'integrazione di nuovi arrivati, perché il significato è unire, non dividere, non creare un altro ghetto, il Sankara FC compete in un campionato locale di calcio a 7 e lo fa essendo già vincitore. Ha realizzato un vero e proprio progetto di integrazione facendone una realtà quotidiana.

Rifugiati e italiani che corrono insieme dietro una palla, indossando una maglietta dello stesso colore. Questa è l'idea alla base che ha portato la creazione di questa squadra multiculturale e interetnica. L'integrazione di persone provenienti da paesi e culture lontane da noi viene coltivata e costruita con pazienza, passione e dedizione, giorno dopo giorno, con il lavoro. Ma è anche fatto con il divertimento. Lo sport è una colla indissolubile e il calcio, una lingua parlata in ogni angolo del globo. In questa piccola realtà si ancora legati a un'idea romantica di calcio, lontano dagli schemi mercantilistici che governano il calcio oggi. Qui, né il colore della pelle né il dio che preghi contano. Vestiti da Rage Sport – un marchio noto per il suo logo, con tre frecce rivolte verso il basso, che rappresentano solidarietà, libertà ed uguaglianza, che si definisce antifascista, antirazzista e antisessista, lontano dalle tendenze mercenarie del mondo del calcio - il Sankara FC aiuta anche i nuovi arrivati a trovare un lavoro e una casa e ad imparare l'italiano. È diventato, ribelle, disubbidiente, sognatore, un pesce che nuota controcorrente. Il calcio di oggi è vissuto da un punto di vista essenzialmente commerciale, mentre il Sankara FC vuole tornare alla sua dimensione originale, quella del calcio praticato in periferia. Qui, le partite e l'allenamento diventano una cosa che aiuta a integrarsi. Si impara a sudare, a vincere e perdere insieme.
Lo slogan “Mille colori, una squadra”, mantiene viva l'eredità del dimenticato Thomas Sankara. Allo stesso tempo, scommette, decisamente, per un calcio senza confini.
Senza barriere. Per un calcio più dignitoso, umano.
Per un calcio in cui molti mondi si incastrano attorno a una palla.