Chi parla di demolizione in nome del progresso calcistico gode di tutta la comprensione possibile.

Chi asserisce che, per tornare ai vertici del calcio internazionale, le due squadre della Madonnina abbiano necessità di uno stadio di proprietà, ha completamente ragione.

Chi trova che il calcio si stia trasformando in un prodotto che deve avere sempre maggior vendibilità, ha letto con criterio e competenza l’evoluzione che questo sport ha già intrapreso e inarrestabilmente proseguirà.

Forse, però, coloro che senza batter ciglio vorrebbero far sparire San Siro in nome di tutte le succitate, (sacrosante) ragioni, hanno dimenticato qualche piccolo particolare.
Forse, non conoscono gli occhi dei ragazzi che mettono piede per la prima volta in quella struttura.
Quell’accozzaglia di metallo che, come per incanto, non appare più come tale: cambia la dimensione, il sogno diventa realtà, l’emozione ti fa strappare un sorriso prima della foga dell’incontro, l’atmosfera sembra diversa da tutti gli altri posti del mondo.

Ti senti al centro.

Forse, i cultori delle pay-tv non ricordano che questo stadio porta il nome di un’icona del calcio mondiale, di un atleta che nessun mezzo tecnologico potrà riportarne le gesta, ma che solo i resoconti di chi all’epoca lo ha visto o ne ha solo sentito parlare possono farci immaginare quanto leggendario sia stato.

Forse, che è stata la casa del Milan di Nereo Rocco e dell’Inter di Herrera, che hanno reso Milano una delle capitali del calcio internazionale, non è stato ritenuto importante.

Forse, la memoria ha fatto brutti scherzi e non si ricordano che è stato il teatro delle galoppate di Maldini e Zanetti, capitani immensi a furor di popolo; della fierezza di Baresi e Bergomi; delle giocate da stropicciarsi gli occhi di Sheva e di Ronaldo; degli attaccanti da urlo alla Weah e alla Vieri; dell’estro troppo grande per concentrarsi solo su una parte del Naviglio come Baggio e Ibrahimovic; dei brasiliani che non sfornavano gol ma che le prodezze le hanno compiute con i loro guanti, come Dida e Julio Cesar; di uomini attaccati alla maglia come Zenga “Uomo Ragno” e Billy Costacurta; dei treni che hanno anticipato l’avvento dell’alta velocità come Cafu e Maicon; di Kakà e di Suarez; di Prati e di Jair.

Può essere sfuggito, ma che non gliene si faccia una colpa, che su quel prato verde, anzi, su quella panchina ben piantata, si è seduto un rivoluzionario, un maestro che ha dato lezione a Sua Maestà Real Madrid, quell’Arrigo che ha lanciato il trio olandese che al solo nominarlo ancora si trema: Gullit, Rjikaard e quel cigno di Utrecht rispondente al nome di Marco Van Basten, il re incontrastato di quelle notti memorabili a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90, di cui ancora gli dei del calcio ci devono una spiegazione sul perché sia stato fatto abdicare così presto.

Forse, ancora, è passato relativamente poco tempo e quindi li possiamo scusare, ma nel 2010 sono stati portati tre trofei contemporaneamente in una sola stagione all’interno del tempio, trascinati alla conquista dal mago di Setubal e condotti all’apoteosi da un Principe venuto dal Sud America e transitato dalla Liguria per fare innamorare un popolo in attesa da troppo tempo.

Forse, e ribadiamo la nostra insicurezza, hanno rimosso l’epopea di Capello e di Ancellotti; lo scudetto dei record di Trapattoni; i derby di cui ancora oggi si sente l’eco di tanta epicità.

E se già questo possiamo assolutamente tollerarlo, figuriamoci se adesso possiamo offenderci se chi vuole la fine del “Meazza” si possa rammentare del 27 Giugno 1980, di quando un signore giamaicano che di nome si faceva chiamare Bob, e di cognome risultava Marley, decise di elevare quel posto a meta di pellegrinaggio musicale.

E allora, non stupiamoci che ci si dimentichi che esattamente 17 anni dopo un interista chiamato Luciano Ligabue affidò a quel campo le note di “Urlando contro il cielo”, divenuto inno generazionale e coro della squadra nerazzurra di Milano; o che Vasco Rossi ne abbia fatto il suo habitat naturale; o che Bruce Springsteen, il Boss, venga in Italia solo se gli garantiscono di calcare quel palco.

No, tutto ciò non conta.

Ecco, quando, in nome di tutto ciò che giustamente si sostiene, si pensa a rimuovere San Siro, si rifletta su tutto ciò che è stato, senz’altro in buona fede, non considerato.

Si pensi a Roberto Vecchioni, ad Aldo, Giovanni e Giacomo.

Si pensi che tra il Duomo e il Castello Sforzesco, c’è lui, simbolo di una metropoli.

Si pensi a tutte quelle persone che appena si nomina la parola “stadio” la prima immagine che la mente produce è una sola.

Si pensi alle corse in metropolitana alla fine della partita, alle chiacchiere mangiando un panino, agli sfottò.

Si pensi, quando pensate a buttarlo giù, che fare ciò spezzerebbe i cuori di milioni di persone, spazzerebbe via un monumento, che non rappresenta solo uno spazio dove ventidue persone litigano per un pallone o i cantanti troneggiano imbracciando la chitarra, ma che è l’effige di un valore unico, il manifesto di un sentimento.

Sì, perché San Siro, per tutti gli amanti del calcio e non solo, è amore.

E questo, forse, in questi giorni, lo hanno capito proprio tutti.

O forse no.