Per un po’ Daniele De Rossi si sentirà meno orfano della sua Roma, ora che la sua nuova famiglia, quella boquense, è pronto ad abbracciarlo. A Buenos Aires, Nicolas Burdisso, direttore sportivo del Boca Juniors e suo ex compagno di squadra giallorosso, è pronto ad accoglierlo a braccia aperte nella capitale argentina dopo un lungo corteggiamento, sfociato nel beneplacito che tutta la città sudamericana implorava a gran voce. Calcherà il prato verde della mitica “Bombonera”, in un’atmosfera unica al mondo, indossando la leggendaria maglia gialloblù.

Dopo anni di militanza giallorossa, assumerà la veste di “xeneize”, etimologicamente parlando “Zena”, Genova per i genovesi. Il destino è bizzarro a volte: il 6 aprile scorso proprio nella città ligure arrivò il suo ultimo gol romanista.
Fato bislacco. Daniele se lo sognava diversamente il finale di carriera, un lieto fine degno di una vera leggenda, annebbiato da valutazioni tecniche ed economiche “americane” che esulano dai sentimenti. Per la gente DDR è il “romanismo”, un valore che va oltre le vittorie, utopie del recente passato giallorosso.
Ecco perché a Trigoria non rimane altro che legarsi ai simboli, quelli che meglio rispecchiano la romanità. De Rossi ne ha rappresentato, insieme a Totti, la massima espressione, ed il suo allontanamento congiunto a quello di Francesco, ha destabilizzato un ambiente già storicamente suscettibile.
Un arrivederci turbolento il suo, tra audio WhatsApp diffusi in rete e scottanti rivelazioni di spogliatoio pubblicate. Spesso ci si fa vanto di un senso d’appartenenza indissolubile profondo e radicato.
È il caso di Daniele, che per non tradire se stesso e la sua gente, ha deciso di proseguire la sua carriera oltreoceano, rifiutando Firenze e la prospettiva di rimanere prossimo alla sua città. Il suo contratto non è stato rinnovato dalla proprietà statunitense, suscitando sdegno tra i tifosi giallorossi che fanno del classe ’83 un vero e proprio capopopolo.
Figlio della deromanizzazione messa in atto da Pallotta e soci, l’epurazione di una bandiera di tale spessore non ha fatto altro che depauperare una società storicamente raffigurata da personaggi legati visceralmente alla maglia, romani e romanisti ancor prima che professionisti. Valori e principi sempre più sporadici, emblema di un progressivo decadimento sentimentale nel mondo del pallone, sovente succube del dio denaro.

E Totti? Il suo congedo l’ha comunicato nella conferenza stampa del 17 giugno scorso, che la sorte, beffarda, ha voluto coincidesse con il diciottesimo anniversario dell’ultimo scudetto giallorosso. L’ha fatto demolendo la società, accusandola di essere formata da uomini antiromani e antiromanisti, cattivi consiglieri di un Presidente troppo distante nei luoghi e nella mente. Il Totti innamorato mostra gli stessi sentimenti di un figlio privato della propria madre, abbandonato a se stesso, orfano dell’amore suo più grande.
Le sue dimissioni son giustificate, a dir suo, dalla poca considerazione ricevuta, dall’esser stato messo sempre da parte scavalcato nelle gerarchie da Baldini, spalla fidata del Presidente, nonostante un promesso ma non mantenuto ruolo da primo piano di direttore tecnico. Non un addio però, il suo è un arrivederci.
L’eventualità di un cambio di proprietà (qatariota aggiungiamo noi) potrebbe rimescolare di nuovo le carte in tavola, permettendo all’ex capitano, mito d’intere generazioni, di riabbracciare la sua gente, affranta da comportamenti alquanto discutibili.

Pallotta e De Rossi, James e Francesco, Boston e Roma. Tesi ed antitesi.

Sì perché in fondo la Roma, come qualsiasi altra squadra che sia, concretamente sarà anche dei presidenti, ma in realtà appartiene solo ai tifosi, che non ne fanno un discorso di business, ma solo d’appartenenza e sentimentalismi, elementi che senza romani e romanisti veri come De Rossi e Totti, priveranno la Roma di qualità che non si possono elargire.
Per i coscienziosi ripensamenti, semmai ce ne siano, oramai è troppo tardi.

Alea iacta est, vero James?