Sono nato in una epoca che non c’è più, a cavallo tra gli anni '60 e '70, tra la generazione che è scampata alla guerra e quella dei computer. Proprio l’altro giorno leggevo su questo sito un problema di uno scrittore come me relativo ad un videogame, l’ho letto col sorriso e mi ha riportato alla mente antichi ricordi. Ai miei tempi i giochi erano molto diversi... Della mia epoca potrei parlare di tante cose, della musica e dei quiz in tivù che hanno fatto storia, oppure della mitica Italia-Germania 4-3, definita la "partita del secolo" e ancora oggi campeggia fuori lo stadio Azteca di Città del Messico la targa commemorativa di questa gara, ma quello che più mi rappresenta è un ricordo legato all'infanzia: la partitella organizzata sotto casa, che non era mai una semplice partita, ma era "la partita".

Forse faccio parte dell’ultima generazione cresciuta e formatasi per quella palestra di vita che è la strada, di sicuro in condizioni migliori di quelle dei nostri genitori. Questo ci ha fatto crescere più in fretta, ci ha fatto affrontare la quotidianità in maniera diversa, cavandocela in tutte quelle situazioni che la vita prima o poi ti mette di fronte. Trascorrevo le mie giornate in un cortile, uno spiazzo sotto casa, con me tanti altri bambini della mia palazzina e di quelle vicine. A guardarla adesso sarebbe una piazzetta, ma per noi era il nostro campo di calcio, e poco importa se tornavamo a casa tutti ammaccati, tra lividi sparsi ovunque e ginocchia sbucciate.

Le partite che giocavamo erano tutt'altro che amichevoli. Nell'attesa che si raggiungesse un numero sufficiente di partecipanti - non era importante il numero ma solo che fossimo pari - facevamo qualche passaggio e tiro in porta, una sorta di riscaldamento si direbbe oggi. Le porte erano improvvisate con quello che capitava. Quando eravamo abbastanza ci mettevamo tutti spalle al muro e i due più "bravi" formavano le squadre. I primi ad essere scelti erano i migliori e man mano gli altri, io ero sempre tra gli ultimi.

Di solito scegliere per primi risultava determinante nel successo finale quindi la conta iniziale - non avevamo monete per far testa o croce - era molto accesa. La lite continuava anche prima dell'inizio della partita, era un momento fondamentale. Sembravano le conferenze di presentazione di mach pugilistici, dove l'insulto e la minaccia serve per far intimorire l'avversario: al classico "vi facciamo un... così", "in campo abbasserete la cresta", "vi spezziamo le gambe" e via discorrendo, sempre con questi toni molto "pacati e civili" seguivano, come detto, partite molto combattute. La tattica non si sapeva cosa fosse, si difendeva e si attaccava tutti insieme.

L'arbitro non esisteva - ma neanche le regole, se è per questo - per cui il gioco si interrompeva di rado, solo in caso di sangue. In campo si davano e si prendevano dei calci assurdi, per non parlare delle spinte violentissime che ti sbattevano a terra, ci stava sempre qualcuno che citava lo zio o il cugino dotto delle regole del calcio e le si faceva passare per contrasti regolari spalla a spalla. Le simulazioni erano inesistenti, buttarsi volontariamente su quel terreno sconnesso e con qualche pietra sarebbe stato da pazzi. I casi più controversi, specialmente in caso di rigore, si dirimevano con ampio uso di turpiloquio, dall'insulto personale facilmente si passava a chiamare in causa l'albero genealogico familiare.

Lo spirito sportivo... questo sconosciuto! Soventemente capitava che una squadra fosse molto più forte dell'altra, quindi ad ogni gol seguivano cori di scherno, sfottò ed esultanze che non avevano nulla ad invidiare a quelle attuali. Come avete capito provocazioni e calcioni erano all'ordine del giorno che spesso sfociavano anche in scazzottate sedate dagli altri compagni. Ma era un evento piuttosto raro, dato che se fosse successa una cosa del genere... a casa ci aspettava il resto. Qualche testa a testa, qualche spintone e si continuava a giocare come se nulla fosse successo. Un attimo prima si ci insultava pesantemente, l'attimo dopo si ci tendeva la mano per rialzarsi dopo una caduta.

Io giocavo quasi sempre in porta, per il motivo che ho detto prima, e quando difendevo i pali (per modo di dire) della mia squadra mi immaginavo, come tutti del resto, di giocare un giorno in serie A, i miei idoli erano Albertosi, Cudini e Lido Vieri. Una signora dei piani alti ospitava un giocatore professionista delle categorie inferiori, per cui ogniqualvolta si affacciava al balcone o usciva di casa si innescava una gara nella gara. I promettenti e giovani calciatori in erba (i più bravi, per la precisione) si mettevano in mostra con palleggi, scarti - oggi dribbling - e numeri di alta scuola. Alcuni si cimentavano nella cosiddetta puntata (colpire il pallone con la punta del piede) per rendere il tiro più potente, una tecnica che risultava molto efficace ed imparabile per noi gracili ragazzini, però ti esponeva anche al pubblico ludibrio. In realtà, dalla mia posizione privilegiata, potetti notare che il calciatore professionista più che concentrarsi a guardare noi era intento a scrutare le grazie della figlia del custode che abitava a pian terreno.

Il più delle volte il pallone finiva nei giardini delle case circostanti e bisognava che qualcuno lo andasse a recuperare col rischio di essere colti in fragrante dal proprietario. Se andava bene ti prendevi un rimprovero severo, mentre se diceva male venivi malmenato. A me piaceva molto arrampicarmi oltre le inferriate o i muretti, ero agile e gli spuntoni e i cocci di vetro non mi facevano paura, anche se in nome della causa ci ho rimesso più di qualche vestito che mia mamma pazientemente mi rattoppava.

Il terrore più grande però era rompere qualche vetro. Lo ricordo come se fosse oggi quando il pallone sfondò la finestra della casa del custode, che stava proprio dietro il nostro campo improvvisato. Al fuggi fuggi generale seguirono le urla del malcapitato che immediatamente usciva di casa col pallone in mano per poi tagliarlo a brandelli. E pensare che quella volta la mia squadra era in vantaggio, il risultato era in bilico, 4-3... e chissà come sarebbe finita!

Ma il ricordo più bello è sicuramente la fine della partita, quando stanchi e azzoppati prima di tornarcene a casa venivamo rifocillati con acqua e biscotti fatti in casa dalla signora vestita di nero. La chiamavamo così perché appunto indossava sempre indumenti neri, dalla testa ai piedi, era vedova sin dalla gioventù. Le bottiglie e i bicchieri erano di un vetro opaco, lavato alla ben in meglio, di chissà quanti anni. I biscotti avevano un sapore mai più ritrovato. Non se la passava di certo bene, senza marito si arrangiava con qualche piccolo lavoretto, ma quella sua inspiegabile generosità nei nostri confronti è tutt'oggi il ricordo più bello. Chiunque altro ci avrebbe scacciati, noi mocciosi pestiferi, ma non lei che aveva sempre un sorriso ed un gesto d'affetto per noi: probabilmente ci vedeva come i suoi figli che non aveva mai avuto.

Questa è la mia partita, la partita con gli amici di una volta.