C’è uno stadio, a Brescia, di 20mila spettatori: si chiama Rigamonti. C’è un piccolo stadio, a Lecco, di cinquemila spettatori: anche quello si chiama Rigamonti  (Rigamonti-Ceppi, ad essere precisi, in onore anche del presidentissimo del Lecco tra gli  anni 50’ e 80’).   

C’è una società dilettantistica che disputa le proprie partite interne sul campo di Buffalora (quartiere di Brescia che sfiora i confini di Castenedolo) ed è una realtà importante del panorama calcistico bresciano: si chiama ADC Mario Rigamonti. Da quelle parti il mantra è: “Se non hai i requisiti umani di genuinità e sportività, alla Rigamonti non entri. E se non ti comporti bene te ne vai”.

C’è una piccola cappella, nel cimitero di Capriolo e c’è una lapide su cui è inciso: “Muore giovane chi al cielo è caro!”. È la cappella della famiglia Rigamonti e quella scritta sulla pietra è dedicata al difensore che non segnava (e non guadagnava) come Valentino Mazzola, ma che faceva parimenti la differenza e che costruì un pezzo di quella grande leggenda.

Una leggenda che prendeva corpo, partita dopo partita, sui campi di mezzo mondo e che fu resa eterna dallo schianto di Superga. Era il 4 Maggio del 1949. Lì moriva anche Mario Rigamonti. 

Nasce a Brescia il 17 dicembre del 1922,  da papà Aurelio e da mamma Agostina, gestori del Ristorante Albergo con stallo ‘La Mansione’, sito nell’omonima via bresciana. E nel Brescia muove i suoi primi passi da calciatore. Approda al Torino appena diciannovenne, nell'estate del 1941, tuttavia raggiungerà la prima squadra granata solo nel dopoguerra: gioca infatti in prestito nello stesso Brescia il torneo bellico del 1944 e nelle file del Lecco  il Torneo lombardo del 1944/45. Eccellente anche nella lotta greco-romana, Mario è un difensore, un po’ mediano, roccioso e con tanta grinta, imperioso nello stacco aereo e nell’anticipo, scattante e veloce; il suo ruolo era definito di centrosostegno. Non stupitevene, il calcio di allora era un altro sport. 

Nel Torino ha giocato 140 partite di campionato, contribuendo alla vittoria di quattro scudetti. 

La sua maglia numero 5 diventa un vero tabù per i centravanti avversari, come sportivamente ebbero ad ammettere campioni del calibro di Nordhal e Piola. 

Nel maggio del 1947 Vittorio Pozzo gli consegna la prima delle sue tre maglie azzurre. Il ruolo di titolare in quella Nazionale era di Parola  (del quale era considerato l'erede naturale).

Destinato a diventare titolare fisso, ha giocato soltanto 3 partite nella Nazionale. La prima partita in azzurro la disputò l'11 maggio 1947  a Torino contro l'Ungheria, battuta per 3-2; fu la partita nella quale 10 elementi, sugli 11 in campo da titolari, erano giocatori del Grande Torino (l'unico non granata fu il portiere juventino Sentimenti IV). Il 14 aprile 1948 giocò allo stadio "Colombes" di Parigi contro la Francia (vittoria per 3-0). Il 27 marzo 1949, infine, giocò a Madrid contro la Spagna (vittoria per 3-1).

Qualche anno fa fu messo in vendita su Facebook il suo cartellino di iscrizione alla Figc (porta il numero 03375 e il timbro dell’Associazione Calcio Brescia). Chissà come l’avrà presa, da lassù, il buon Mario. Di sicuro, si sarà fatta una gran bella risata, perché lui, i riflettori della fama, non li ha mai presi tanto sul serio.

Era un anticonformista, un po’ matto e un po’ mattacchione. Studiava medicina, sì, medicina! Ed era un incurabile ritardatario, non di rado arrivava negli spogliatoi pochi minuti prima dell'inizio della partita. Non stupitevene, il calcio era un altro sport. Amava le moto da impazzire, amava le sue origini, amava essere se stesso, anche se era diventato l’erede del grande Parola e tutti per strada lo riconoscevano. Magari lo cercavano in ritiro e lui era a giocare ad un torneo notturno di provincia con gli amici; oppure si trovava a passare per il paese in sella alla sua moto e dopo qualche minuto te lo trovavi in piazza, senza scarpe, a giocare a calcio con i bambini.  

Genuinità e sregolatezza. E niente divismo. Quella è roba dei giorni nostri e delle nostre irraggiungibili stars tatuate. Chissà se anche a loro dedicheranno stadi e statue.