Sono nove anni che ci poniamo sempre la stessa domanda: chi è l'AntiJuve? In due o tre occasioni, sembrava potesse essere il Napoli, ai tempi di Benitez e, successivamente, nell'era Sarri. L'anno scorso pareva essere il turno della Lazio, ma la sosta per la pandemia ha ridimensionato pesantemente la squadra guidata da Simone Inzaghi. Qualche anno prima, i panni di AntiJuve sono stati vestiti dalla Roma di Rudi Garcia o, prima ancora, dal Milan di Allegri (quello del famoso goal di Muntari).

Oggi, a quasi un terzo del campionato, la Serie A sembra poter davvero cambiare padrone. La Juventus, che rimane la squadra da battere, non sembra più la macchina da guerra che ha dominato a sud delle Alpi per quasi un decennio. Il calcio liquido di Pirlolandia potrà, forse, essere la più grande rivoluzione tattica del futuro, ma ad oggi risulta essere un notevole passo indietro rispetto alla tanto bistrattata gestione Sarri. L'Inter di Conte era considerata da tutti la vera antagonista dei bianconeri. Il Napoli di Gattuso è l'underdog del campionato. Sul trono della Serie A, però, è seduta da dieci partite un'altra squadra: il Milan.
Pioli è una brava persona, secondo la vuglata generale. Un modo gentile, ma non troppo elegante, per dire che non è un bravo allenatore. La sua storia parla di una prima stagione esaltante e di una seconda in crollo. Il problema è capire quando inizi davvero la prima stagione milanista di Pioli. Chi scrive ritiene sia giusto dividere l'anno scorso dei rossoneri in due: Avanti Ibra e Dopo Ibra.
Il Milan Avanti Ibra, guidato prima da Giampaolo e poi da Pioli, era una squadra da zona Europa League, non di più. L'arrivo dello "zingaro svedese", come veniva etichettato il giovane Zlatan ai tempi duri del ghetto di Malmoe, venne accolto tra l'esaltazione di molti e lo scetticismo di tanti. Le esternazioni di Ibrahimovi, tra cui il noto "se fossi stato qui dall'inizio della stagione, avremmo vinto lo scudetto", hanno fatto sogghignare la maggior parte degli osservatori e, senza dubbio, anche dei tifosi rossoneri. Eppure i fatti sembrano farsi beffe dei nostri sorrisetti e dar ragione a Re Zlatan: il Milan, da quando c'è lui, è una squadra da scudetto. Primi in classifica, con cinque punti di vantaggio sulla seconda, un calcio efficace e a tratti spumeggiante, una rosa rivitalizzata e valorizzata, una clamorosa sinergia tra squadra, allenatore e società. Tutti dietro Zlatan, anche quando non può materialmente scendere in campo: senza il gigante svedese, il Milan ha vinto quattro partite su quattro.
A Milanello si può, quindi, fare a meno di questo trentanovenne? La squadra marcia ormai spedita sui binari giusti? Assolutamente no. Ibrahimovic è il Milan, molto più di mister Pioli o di Gazidis o di Elliot. La "coattagine" dello svedese, che parla di sé in terza persona come faceva Giulio Cesare, funge sia da parafulmine che da motivazione per i tanti ragazzi della rosa rossonera, che è una delle più giovani della serie A. Zlatan serve: in campo, in panchina, nello spogliatoio, in tribuna, in televisione, nei videogiochi, a staccare i biglietti e a vendere bibite (quando San Siro riaprirà al pubblico).

Chi è l'AntiJuve, dunque? Domanda mal posta. Il quesito giusto, corretto, che questa prima parte di stagione ci consegna è il seguente: chi è l'AntiMilan? A vedere gli inseguitori, il posto d'onore spetta alla Juventus. Per tradizione, certo, ma anche perché ha Cristiano Ronaldo. Uno che, più o meno, ti fa sempre cominciare una partita con un goal di vantaggio. Se si potesse mettere sui piatti della bilancia quello che CR7 aggiunge e ciò che toglie alla Juventus (perché anche lui toglie qualcosa e chi non ha i paraocchi se ne accorge...), la bilancia penderebbe nettamente a favore di ciò che il portoghese aggiunge. Goal, ma non solo: leadership, grinta, volontà di vincere, pressione sugli avversari. Cristiano Ronaldo è una macchina da guerra, un maniaco del proprio fisico, un perfezionista che può solo ispirare gli altri componenti della rosa. Il problema della Juventus non è in campo, ma in panchina: Pirlo, all'esordio assoluto come allenatore, al momento ha fatto più danni che cose buone. Un dilemma ci affligge e non siamo ancora pronti a rispondere: il calcio che Pirlo ha in mente è talmente futuristico che si affermerà tra qualche anno... o è una "cagata pazzesca", come la Corazzata Potemkin dell'indimenticabile Fantozzi? Ai posteri l'ardua sentenza. Noi, contemporanei, possiamo solo osservare, registrare, valutare.

Dopo la Juventus, il ruolo di AntiMilan spetta all'Inter. Di diritto, più che di fatto. Antonio Conte, di gran lunga l'allenatore più pagato della serie A, ha avuto quasi tutti i giocatori che chiedeva. Rispetto all'anno scorso sta provando anche ad offrire un calcio diverso: talvolta ci riesce, talaltra meno. La rosa non ha nulla da invidiare a quella del Milan, anzi è sicuramente più profonda. Conte è certamente in vantaggio su Pirlo, quantomeno per motivi anagrafici: fa l'allenatore da più tempo, ha vinto in Italia e in Inghilterra, ha guidato la Nazionale. Un curriculum del genere non può non pesare. Cosa non ci convince dell'Inter? La sindrome da accerchiamento. Conte tenta di imitare Mourinho, ma il portoghese è maestro di questa strategia. L'allenatore leccese, quindi, rischia di scadere nel macchiettistico e nel grottesco quando denuncia nemici immaginari ovunque. In più, il Vate di Setubal riusciva a convincere i campioni della sua squadra a trasformarsi in gregari, a buttarsi nel fuoco per lui: Conte riuscirà a fare lo stesso? Ne dubitiamo. Forse l'Inter corre il rischio di avvitarsi su se stessa, schiava degli umori del suo allenatore, sempre in bilico tra lo sbroccare e il piagnucolare. Una squadra sull'orlo di una crisi di nervi. Se mette a posto questo aspetto, lo scudetto può seriamente tornare sulle gloriose casacche nerazzurre.

Tolte le tre grandi, chi rimane? La Lazio non convince. L'anno passato sembra essere stata una splendida eccezione, ma la dimensione reale della prima squadra capitolina (stando all'anagrafe, non me ne vogliano i romanisti...) pare essere questa. L'Atalanta è incostante, può battere il Liverpool e perdere col Cologno Monzese. Ci sarebbe la Roma che, zitta zitta, ha perso solo contro il Napoli albiceleste nella notte di Maradona. Fonseca ha dimostrato capacità di adattamento, flessibilità tattica e mentale. Ha rinunciato al modulo che preferiva per modellarne un altro sulla rosa che ha a disposizione. L'alchimia è riuscita in pieno: la Roma gioca bene, raramente è deconcentata, ha un undici da instant team: Pedro, Mkhitaryan, Dzeko, Smalling, Mirante non possono avere un futuro, ma possono certamente avere un grande presente. Se a questi aggiungiamo l'ottimo Spinazzola, il validissimo Veretout, i giovanotti della difesa e se Pellegrini trovasse maggior continuità, la Roma potrebbe davvero essere la sorpresa del campionato.

Se dovessimo puntare un tornese su una sorpresa, però, non sceglieremmo i giallorossi. E' il Napoli di mister Gattuso a rappresentare, a nostro avviso (e non tanto per motivi di tifo), la vera mina vagante. I partenopei possono battere chiunque, potendo contare su una linea di fuoco assolutamente di prim'ordine. Mertens ama vestire i panni dell'assist man, nonostante sia il calciatore che abbia segnato più goal nella storia del Napoli; Insigne sembra aver raggiunto l'apice della propria maturità calcistica; Lozano è letteralmente rigenerato e sembra un altro rispetto al magrolino puntero dell'anno passato; Politano ha il sinistro magico e abbina deliziosamente quantità e qualità; Petagna non sarà mai un bomber, ma sa ripulire i palloni ed ha la stazza giusta per aiutare la squadra in certi frangenti; Osimhen pare avere i crismi della rivelazione, nonostante vada sgrezzato e il suo bagaglio tecnico-tattico vada costantemente rinverdito e implementato. Il Napoli non è solo attacco, anzi: ad oggi è la miglior difesa del campionato, al netto dei tavolini. Koulibaly e Manolas sembrano aver trovato l'intesa che l'anno scorso è mancata. Forse sugli esterni si può trovare di meglio, ma a conti fatti Di Lorenzo e Mario Rui sono migliori di quanto la vulgata dominante dica. A centrocampo, poi, Gattuso può davvero sbizzarrirsi: può giocare con due mediani dietro tre mezzepunte o un mediano e due mezzali. Bakayoko è stato l'aquisto più utile del recente calciomercato. Chili e centimetri, calcio semplice e pulito. Vicino a lui può giocare Fabian, ciuffo ribelle e sinistro di categoria superiore, oppure Diego Demme, che è come i bassisti nei gruppi heavy metal: quando suonano, non li senti; quando non ci sono, ti mancano da morire. Zielinski gioca un calcio che forse vedremo alla Playstation 7, per questo a volte la sua genialità risulta incompresa da noi comuni mortali della pedata. Lobotka e soprattutto Elmas, diamante grezzo di soli ventuno anni, sono cambi utilissimi per far riposare i compagni, ma soprattutto per cambiare lo spartito del match perché sanno leggere sia in chiavi di violino che in chiave di basso.

Last but not least, il Napoli può contare anche sulla magia che si è venuta a creare in città a seguito della dolorosa perdita di Diego Armando Maradona. L'episodio della sconfitta a tavolino contro la Juventus e del punto di penalizzazione in classifica avevano già prodotto un aumento della vicinanza tra città e squadra. Persino l'atteggiamento nei confronti di De Laurentiis si è ammorbidito. La morte del più grande calciatore di tutti i tempi e il conseguente lutto di popolo hanno letteralmente cementato Napoli e il Napoli, vicoli e fasce laterali, piazze e centrocampo, quartieri bene e reparto attaccanti. Oggi Napoli vuole prendersi ancor più cura della sua squadra. Vuole vivere con lei una simbiosi che da decenni non si provava. Il ricordo commosso è sempre più accompagnato alla volontà di rivalsa, al famoso "riscatto" che è stata la parola più usata durante i giorni del ricordo di Diego.
E se si riuscisse a tornare sulle gradinate del Tempio, da giovedì ufficialmente intitolato ad una divinità dopo quasi sessant'anni dedicati ad un santo, tutto potrebbe accadere.