Non ci saranno le corse a casa per l'inno, non ci saranno bottiglie rovesciate per un quasi-gol, non ci sveglieremo con il pensiero che "stasera giochiamo".
Non ci saranno gli abbracci, i riti scaramantici, la stessa maglia da indossare ogni volta, i tricolori nelle rotonde di periferia, le bandiere montate al contrario, le lunghissime attese tra un match e l'altro, non avremo avversari da studiare, non ci saranno chiacchiere pre partita e infiniti commenti a caldo. "Ma che formazione ha messo?", "e come ha fatto a sbagliare quel gol?": niente di tutto questo.

I Mondiali sono belli perché sinonimi di un'omologazione sacra che non va violata: la casalinga di Voghera è coinvolta tanto quanto l'operaio di Caltanissetta, lo stesso vale per il gondoliere di Venezia e il pizzaiolo di Napoli.
Per un mese, a cadenza quadriennale, siamo tutti uguali, tutti uniti, i confini regionali si sgretolano e lottiamo tutti per la stessa causa. E' un'aggregazione che non spaventa, anzi, che rende felici.

I Mondiali sono una grande opportunità sociale che poi si rivela effimera al termine della manifestazione, ma che almeno nel frattempo ha il grande merito di fare da collante ad un Paese frantumato per sua stessa natura primordiale.

Quella sensazione consapevolmente utopistica di unione, sì che ci mancherà molto, più dell'azzurro sul prato verde e della frase «Si alza l'urlo "Italia Italia"»