Bentornati alla mia rubrica di 'Racconti Di Storia Vera'. Sono tornato dopo tanto tempo, in primis per problemi di lavoro, tanti viaggi in questi ultimi giorni soprattutto tra Inghilterra, Spagna e Germania, un pò perchè non è proprio facile trovare chi vuole raccontare la sua storia di un vissuto nel calcio, che si ricordi tutto per filo e per segno. Ma con le mie conoscenze, ho trovato un giocatore che è stato suo malgrado un grandissimo campione, no non immaginate i Maradona o i Pelè o viceversa, ma un campione che sarà legato ad un club in particolare, per una stagione inverosimile. Come sempre ci sarà il veto sul suo vero nome, per questo si chiamerà Annibale, e sulla squadra in cui giocò, che chiameremo con il nome di fantasia Zebra. Ascoltiamo quindi il suo racconto:

Quando 5 Maggio 2002 mi chiamò, non sapevo nemmeno chi fosse, io non sono un lettore di internet, anzi se deve dirla tutta non so nemmeno utilizzarlo. Quando mi disse il nome di un mio nipote, che è un suo amico, allora mi sono detto "Perchè no!", quando ho saputo che aveva anche intervistato altri grandi campioni del passato, i quali mi sono stati letti per filo e per segno da mio nipote, mi sono detto pronto a raccontare la mia storia...

Mi chiamo Annibale e sono nato in provincia di Rieti nel 1940, già proprio a ridosso della Seconda Guerra Mondiale...anche se non ne ricordo nulla, visto che da quando ricordo tutto era molto diverso. Ero figlio di una casalinga, mamma Anna, e di un taglialegna, papà Aristide detto Zeppo. La mia famiglia oltre a me aveva ben altri 7 figli, già in quel tempo la televisione non c'era, quindi c'era più tempo per fare all'amore, e c'erano famiglie molto numerose, anzi diciamo che noi eravamo tra le famiglie più 'normali' al confronto di altre, che portavano tra i 12 e i 20 figli, pensate che caciara in casa....Da bambino mi divertivo a leggere, e mio fratello maggiore, che aveva 15 anni, ricordo che lavorando si metteva i soldi da parte e si comprava il giornalino 'Intrepido'  serie a fumetti ricche di colpi di scena nella migliore tradizione ottocentesca, personaggi come Dick L’Intrepido che dà il nome alla testata. Ero appassionato di lettura, avevo in mia sorella Maria la mia maestra, già lei era riuscita a prendere la quinta elementare, quindi insegnava a tutti a leggere e scrivere, così mi sono impartato si nell'una che nell'altra cosa. Per la maggior parte del tempo, passavo in cortile a giocare agli 'indiani' o a guardie e ladri, con la mia parte che era sempre quella di scappare, mi nascondevo e gridavo 'Lalalalalala' battendo la mano sulla bocca aperta, come facevano gli indiani quando erano pronti all'assalto del nemico, ma io mi nascondevo. Ricordo una infanzia, dura, ma felice, visto che alla fine qualcosa da mettere sotto i denti c'era, anche se poca, ma c'era. Mio padre, molte volte andava su per le montagne a lavorare, quindi restavo solo con la mamma, che mi diceva sempre "Non fare danni, altrimenti ti spezzo tutti i dentini!", puoi capire che ero un monello, e mi divertivo a fargli gli scherzi. Molte volte salivo nel nostro solaio, era più un posto dove mio padre ci metteva la legna per l'inverno, ma io mi mettevo li con i giornalini e li leggevo voracemente, impersonandomi in Dik (Intrepido). Un giorno mentre ero intento a teminare il mio libretto, sento una voce dall'esterno "Chi vuole giocare a pallone?", così scesi e mi diressi alla porta, e aprendo un piccolo spiraglio, vidi mio padre con un pallone sotto braccio..."Allora non c'è nessuno che vuole giocare a pallone? Vabbè, allora lo regalo a qualcun'altro..", ma non fece in tempo a girarsi che esclamai "Io!". Ed ecco che in quell'istante, davanti casa mia si fiondarono almeno una ventina di ragazzini, che gridavano "Io! Io! Io!", una bolgia da far drizzare i capelli, specialmente ai 'vecchietti' del tempo, che gridavano dalle finestre "Andatevene via....Non ce la faccio più...". Ecco che dalla finestra, buia e sempre chiusa, si affaccia un omone gigate, secco ma altissimo, che tona "Sor Zeppo, ma le non aveva davvero nulla da fare?", mio padre sorrise ed entrò in casa. Cosa dire? Che la festa abbia inizio, tutti a correre dietro quella palla, calci a destra e manca, e quanti lividi e pianti nel frattempo. Ma mentre calava la sera, ecco che dalla finestra ancora una volta tuonò quell'omone tuonò ancora più forte "Adesso scendo e vi buco il pallone!", io corsi subito a prendere la palla e mi nascosi in casa, e tutti gli altri bambini fecero una fuga pazzesca, tanto che quel gigante si trovò da solo nel deserto del viale a sbraitare e borbottare qualcosa che era pressapoco incomprensibile. Mio padre, venne ritarguito anche dalla mamma, che gli fece una ramanzina..."Ma vuoi litigare con tutto il vicinato? Sai che i vecchi sono dei veri rompi balle, e tu, te li vuoi tirare tutti contro...Ma cosa ti viene in mente con questo pallone?". Mio padre nel frattempo, si sfilava i scarponi da lavoro, potete immaginare che odorino, si mischiava con il brodo di pollo che mia mamma stava cucinando.

Io ero il più piccolo tra i figli, tre fratelli erano già sposati, e addirittura un aveva un figlio della mia stessa età, due erano partiti militari, quindi penso di aver dimenticato il loro volto per l'intera mancanza da casa, poi c'era mia sorella Bettina che amoreggiava con il fidanzato dell'epoca, e mia sorella Midea che era solitaria, non gli andava mai di giocare con me, lei rammendava sempre e solo lo stesso strofinaccio (Canovaccio). Nel 1950, mio padre decise di cambiare casa, per avvicinarsi di più a Roma, quindi ci trovammo nella frazione che oggi è chiamata Case Rosse, nei pressi di Roma, poco distante. Ricordo che non conoscevo nessuno, ed avevo paura di conoscere altre persone, i miei amici, quindi passavo le mie gionate in casa, leggevo e...leggevo. Nel frattempo inziai ad andare a 'scuola', si sempre mia sorella che nel frattempo era divenuta maggiorenne e ambiva a divenire un Avvocato, mi diceva "Prima lo studio e poi il divertimento", ed io ubbidivo. Un giorno mio padre di ritorno a casa, mi disse "Annibale, ma tu cosa vuoi fare da grande?", questa domanda mi faceva più paura che felice, risposi "Papà, a me piacerebbe giocare al calcio, ma so che non posso...", mio padre con una faccia buffa rispose "E questo chi lo ha detto? Ho visto che qui vicino c'è un campo di calcio, perchè domani che sono a casa non andiamo a vedere la partita?". Tutto felice corsi ad abbracciare mio padre, che avrebbe potuto riposare per il lavoro pesante che faceva, ma ero anche molto felice di vedere una partita dal vivo, e chi l'aveva mai vista...

Era una domenica di novembre, un freddo gelido, ero a coperto a fagiolo (nel modo giusto), doppia maglietta e un cappotto di mio fratello di lana, pesante, pesantissimo, sentivo addosso il fuoco e in faccia il giaccio, tanto che la sciarpa ricamata da mia madre si era infeltrita e raggelata, berretto e guanti. La partita era una amichevole tra due squadre di quel tempo, non ricordo i nomi dei club, ma ricordo che avevano una la maglia rossa e l'altra bianca, e se ne diedero di santa ragione, anche fuori sembrava scaldarsi la situazione, tanto che mio padre prima della fine della gara mi prese e disse "Andiamo via, altrimenti qui ci finiamo di mezzo anche noi". Ma quella palla che girava in campo, le urla fuori dal campo, mi avevano coinvolto, tanto da rimanere con un sorrisone stampato per tutto il percorso di ritorno verso casa..."Ti piace davvero il calcio è? Sai che ti dico, appena posso andiamo atrovare una squadra dove potrai giocare". Mio padre, aveva detto quelle magiche parole, e da quel momento avevo un fotogramma che passava ripetutamente nella mia testa, immaginavo di correre su quel campo, di festeggiare ad una rete e di andare a urlare 'Gool' sotto i sostenitori. Passarono tre settimane da quel giorno, mio padre dovette partire e sembrava che quel tempo non passasse più, anzi era interminabile. La mattina mi alzavo e dicevo a mia madre "Papà, quando torna?" e mia madre mi ripeteva "Torna, Torna". Una mattina mi sento "Ma qui, non c'erà un ragazzino che voleva diventare calciatore?", tra me e me pensavo che era tutto un sogno ma quella voce continuava insistentemente a ripetere le stesse parole, tanto da darmi uno schiaffo in faccia da solo, per vedere se stavo dormendo...Era reale, tutto reale. Corsi fuori dalla stanza da letto e trovai mio padre, che mi disse "Ah, ce l'hai fatta ad alzarti. Dai, che ho trovato una squadra dove potrai giocare...". Mi vestii di fretta e furia, non pensando che fuori c'erano alemeno 4 gradi sotto lo zero, era pieno inverno, un bacio alla mamma e via "Dai, papà che si fa tardi, corri, corri", mio padre mi prese per mano e grazie al vicino di casa partimmo alla volta della Capitale. Non riuscivo a stare fermo, per ben due volte mio padre mi intimò di riportarmi a casa, ma non riuscivo a tranquillizzarmi dall'idea di poter giocare. Arrivammo in un campo spettacolare, era tutto così stupendo, un vero campo da calcio; Panchine, Porte e Linee, mi sentivo già felice di essere lì, senza aver indossato ancora una divisa per giocarci sopra..."Giovanotto! Giovanotto, pensa di essere a casa sua?", una voce interruppe la mia festa interiore, mi voltai e un signore alto pressapoco il triplo di me, mi disse "Tu sei Annibale il Condottiero?", io "No, signore! Io sono Annibale Brambi e vorrei diventare un calciatore". Così lisciandosi il baffo disse "Un calciatore...Ma ha mai calciato un pallone? Sembra non aver mai visto un campo di calcio!", avevo leggermente una leggera ansia "...No...signore, ho soltanto giocato a calcio quando abitavo nella casa a Rieti , con i miei amici". Mio padre si avvicino è disse "Allora, potrebbe far giocare mio figlio nella sua squadra?", il signore sorrise e disse "Proveremo questo ragazzo, allora si vada a cambiare", mio pare le rispose "Veramente non ha soltanto questi abiti!". Così mentre un ragazzino usciva gli disse "Ehi, cambiati e dai a lui la tua divisa?". Fa schifo a pensarci oggi, immaginare che con quella roba indosata e sudata da un altro, ci si possa vestire, così entrai nello spogliatoio e mi cambiai, erano sudici zuppi, ma poco importava, io volevo giocare al calcio. Così insieme all'allenatore di quei ragazzini, che accettò di restare imparai le prime movenze da calciatore, quante urla, quanti rimproveri, eppure ero convinto di potercela fare...Le giornate passavano in fretta, e crescevo sia sotto il profilo fisico da che da quello tecnico, ma giocavo solo in allenamento, non avevo ancora giocato una partita, cosa che gli altri facevano, da tempo. Un giorno dopo l'allenamento l'allenatore mi disse "Sei pronto, domenica giocherai la tua prima partita", ero allo scoccare del mio dodicesimo compleanno e avevo tanta voglia di far vedere il mio calcio. La domenica ci imbattemmo in una gara importante tra noi e la squadra avversaria, che era lanciata in vetta alla classifica. Partii dalla panchina, e nella ripresa fui inserito in attacco, la mia statura mi era d'aiuto, a soli undici anni ero alto 1,70, quindi potevo cavarmela alla grande contro i difensori avversari che non erano che dei nanetti al mio confronto, non avevo tanta corsa, mentre mi piaceva colpire di forza quella palla, così come facevo spesso in allenamento. Avevo la maglia numero 16, quando misi piede in campo, fui subito bersagliato da un avversario che mi diceva "Ti spezzo le gambe se provi a segnare", non ero entrato nelle grazie sue, tanto che i calci si sprecavano, e le sue risa anche, ma non mi avevo paura, tanto da riuscire in una azione a scrollarmelo di dosso e far partire un tiro verso la porta che s'insacco a fil di palo, ma non riuscii a festeggiare, perchè nel momento dopo il tiro l'avversario mi entro con i tacchetti sulla caviglia opposta. Non riuscivo più a rialzarmi in piedi, anzi si era aperto un solco sulla mia caviglia, e bruciava oltre a farmi un male assurdo. Fui portato di corsa in ospedale, dove tra le lacrime mi dovettero operare d'urgenza. Passai oltre tre mesi con il gesso alla gamba, e altrettanti a tentare di camminare, poi tutto tornò apposto. Ricordo che mi rialzavo e volevo farlo proprio per tornare su quel campo a giocare. Dopo la dura convalescenza, tornai al campo, ma la società mi aveva rimpiazzato, quindi tornaia casa in lacrime, tanto che non volevo più giocare, avevo deciso di lasciare tutto, ma...Un giorno mentre ero in casa, tra i miei giornaletti, ecco che alla porta bussa qualcuno "Signor Brambi, sono venuto a chiedere se suo figlio sta bene, ma soprattutto per offrigli la possibilità di entrare nel settore giovanile della Zebra", mio padre disse "La Zebra! Ma scherza, o dice sul serio?", e questa voce spazientita rispose "Allora, pensa che io mi sono fatto più di 700 km per venirle a dire una castroneria? Si, la Zebra". Accorsi subito alla porta, un signore alto smilzo e baffuto, con tanto di macchina signorile..."Ah, ecco il piccolo Annibale. Allora, lo dico a te. Vuoi venire a giocare alla Zebra?", io "La Zebra! Quella Zebra?". Mio padre e soprattutto io non credevano alle nostre orecchie. Era l'estate del 1952, e mi trovai in una città nuova, tutti erano diversi da come immaginavo, chissà, forse immaginavo qualcosa di stravagante, lo stadio...già perchè c'era uno stadio, almeno così lo chiamavano era gigantesco, e c'ero al suo interno tante facce note, già quelle che vedevo in tv passando per casa delle poche persone che abitavano nelle mie vicinanze o al bar. Tutti erano fortissimi, ero incantato, tanto che uno schiocco delle dita di mio padre mi riportò alla realtà "Non sognare, tu sei ancora un ragazzino, quelli hanno la mia età....Dove vuoi andare". Così, dopo un giro di spogliatoi e varie postazioni, mi venne data una divisa e un paio di scarpini, ricordo che gridai a quel calciatore famoso "Ehi! Sei fortissimo", lui mi rispose con un sorriso e un saluto, me lo porterò sempre nel cuore.

Ricordo che era durissimo da quelle parti, gli allenamente erano talmente duri, che la notte non riuscivo a dormire, mi facevano male le gambe, ma combattevo il tutto nella speranza di riuscire a fare quel che mi piaceva fare; Giocare al calcio. Mio papà dovette ripartire, e venni affidato ad una zia che mi faceva come da mamma, la cuola era pagata dalla società e avevamo anche un parco dove giocamo al di fuori di scuola e allenamenti. Maturai in fretta, infatti ricordo che la lontananza dai miei genitori e fratelli, mi fece crescere subito, la sera dopo i compiti e la cena, andavo subito a dormire, poi scuola e allenamenti, queste erano le mie giornate. Ero solitario, lo ammetto, mi piaceva stare solo, anzi lo preferivo molte volte, visto che per la maggiore ero sempre o con i compagni di scuola o con i compagni di squadra. La solitudine mi piaceva, restavo con i miei giornaletti, che mio fratello mi spediva a valanga, e la mia cameretta, molte volte mi chiudevo dentro, perchè mi dava fastidio anche l'essere interrotta dalla zia nella mia lettura. Gli anni passarono, veloci, tra studio e campo, e una ragazza che avevo conosciuto a scuola e che frequentavo...Era il 1959, all'età di 19 anni, la mia formazione fisica era pressapoco completa, ero un baldo giovane di 1,90 per 82 kg, svettavo nella Primavera e segnavo a valanga, ero corteggiatissimo dalle ragazze, e la mia era gelosissima...ah, dimenticavo, la mia ragazza era la stessa che avevo conosciuto sette anni prima, l'amore era davvero importante tra noi e duraturo. Un bel giorno, scese in campo una grande celebrità della mia squadra maggiore e mi disse "Ma non pensi sia arrivato il momento di spiccare il volo? Qui sembri troppo per la seconda squadra. Vedo di mettere una buona parola con l'allenatore". Detto, fatto, appena una settimana più tardi, l'allenatore della prima squadra mi fece comunicare che sarei passato nella squadra maggiore, tra il mio stupore e quello della mia famiglia raggiunta telefonicamente, e la zia tra le lacrime in casa. Era un sogno che si tramutava in realtà, da un momento all'altro mi ritrovavo tra le stelle del calcio...Il mio primo giorno passò nell'indifferenza dei tanti, anche perchè ero poco più che un pivello, anche se tutti sapevano cosa stavo facendo in Primavera, ma forse non volevano darmi troppa importanza, oppure preferivano stare tra le loro amicizie più strette. Non era facile sedere vicino a giocatori simili, anzi avevo paura di fare degli interventi per non far male a nessuno. La domenica ero seduto in panchina, e vedevo la squadra con ammirazione, ma un bel giorno di primavera, quando tutto sembrava chiudersi con zero presenze, ecco che l'allenatore si volta e..."Brambi, si scaldi...", mi alzo, con la mia maglia numero 16, e comincio a correre su e giù per tutta la corsia del fallo laterale, saltelli e colpi di testa, e corsa laterale. Mancavano poco più di 10 minuti dal termine, la partita era ancora sul risultato di 0-0, ed ecco il mio momento. Mentre mi faccio il segno della croce, vedo che sta uscendo proprio il giocatore che qualche anno prima mi aveva fatto quel sorriso e saluto, mi passa accanto e mi dice "Forza ragazzo, devi farli piangere". Entro, mi dirigo verso l'area avversaria, e attendo impaziente attendo che la palla scavalchi la metà campo avversaria. Il nostro portiere la lancia lunga, verso di me, svetto e la passo al mio compagno di reparto, che la gira verso la fascia, mi volto verso la porta e comincio a correre, spingo al massimo e mi porto al limite dell'area di rigore, intanto dalla fascia l'esterno salta l'uomo e la mette in area, io mi faccio spazio e salto su al pari del mio avversario, ma la spizzo e la palla supera il portiere disteso sulla sua sinistra, e mentre scendo la vedo entrare in rete. La mia gioia si tramuta in una corsa verso i tifosi e una esultanza tra le lacrime, che emozione, una colonna di persone che si lanciava verso di me, tanta l'esultanza, eravamo in vantaggio ed avevo segnato io. Da quel giorno avevo trovato più spazio anche tra i compagni di squadra che mi avevano soprannominato 'Gioiellino', vincemmo quella gara. Mi venne fatto un contratto importante e rimasi più di 10 anni con quella maglia, pieno zeppo di soddisfazioni sia per la squadra che personale. Poi decisi di ritirarmi, non trovavo più quell'emozioene dell'inizio e le gambe cominciavano a risentirne parecchio. Furono un sogno continuo, tanto da trovare dopo appena due anni la titolarità e anche in alcune circostanze prima della fine della carriera la fascia di capitano. Oggi sono un ottantenne felice di vivere la vita alla giornata, sempre accanto alla mia bella ragazza, poi divenuta moglie e immerso nei ricordi e nella vita di tutti i giorni.

Cosa dire? Che emozione? La storia di Annibale mi ha colpita davvero tanto. Lo ringrazio per questo racconto di storia.