Una, due, sei, tredici, ventisette, quarantacinque, cinquantotto volte. Ti prepari la borsa, regali un bacio al tuo piccolo e a chi te l’ha meravigliosamente donato, vai al quartier generale della tua squadra, sali sul pullman accompagnato dalla musica delle tue cuffiette. Vedi la strada che porta allo stadio, il mezzo scivola giù nella pancia dell’impianto. Quando metti il piede a terra puoi già sentire il rumore della folla, riesci addirittura ad isolare le singole voci di quei folli innamorati persi del simbolo che porti sul petto, proprio in corrispondenza del cuore. E allora la tensione aumenta, ma è una bella sensazione: ti fa sentire vivo, ripaga ogni tuo minimo sforzo, da quando eri bambino fino a poche ore prima di iniziare questo rito. Ti lanci nello spogliatoio alla velocità della luce, il tuo armadietto è lì che ti fissa attonito, mentre tu prendi consapevolezza che anche oggi sarà una giornata incolore. Il mister non ti ha scelto, ha preferito mandare in campo il tuo compagno/antagonista, nonostante il tuo sinistro sia divino, nonostante Tu sia uno dei migliori in circolazione. La giacca copre la divisa, purtroppo, e la cerniera continua il suo viaggio, triste, verso il collo. Quando entri in campo i riflettori non ti sfiorano neanche minimamente, le telecamere – curiose e indiscrete – tradiscono le tue smorfie di rabbia, trattenute ad arte dalla forza dell’abitudine. Ormai fa parte della tua routine: il viso ha imparato a conformarsi ai dettami della recitazione. Manolo Gabbiadini è un calciatore formidabile, di quelli che ne passa uno ogni mille. Porta con sé tutto il fascino dei mancini, i geni misteriosi che con il piede eletto rendono diaboliche le proprie creazioni. Osservare il movimento del corpo di un atleta mancino è un’esperienza quasi mistica. Quando si preparano all’esecuzione di un gesto tecnico, l’occhio dello spettatore resta ammaliato dalla serie confusa di inclinazioni e ingranaggi a prima vista difettosi che vanno a formare un universo parallelo di singolare bellezza. Per non parlare degli esiti, perché le parabole che i mancini danno all’oggetto che colpiscono sono sempre particolari, mai nette e lineari, ma sempre pericolosamente uniche. E chi meglio di Manolo può essere usato come oggetto di studio? Chi meglio di un ragazzo che ha fatto sbigottire il panorama calcistico italiano già in tenera età? Un tiratore scelto come lui è un’arma dal valore impareggiabile. Non schierarlo significa rinunciare al cecchino che in qualsiasi momento può sparare a morte. Eppure il ragazzo nato a Calcinate il 26 novembre del ’91, nelle ore in cui usciva “Dangerous” (manco a farlo apposta l’inglese di “Pericoloso”) di Michael Jackson, non ha nel suo repertorio uno ed un solo elemento di forza. I 186 centimetri gli permettono di dire la sua anche contro gli avversari più nerboruti, tenendo sempre bene in mente che lui preferisce sfidarli in altri modi. Ma comunque, quando è il momento di farsi largo tra le muscolose armature del nemico, la struttura fisica gli dà una grossa mano. Assistere ad una partita dalla panchina è una sofferenza, diciamoci la verità. Qualsiasi ruolo si ricopra, l’istinto animalesco inizia a bussare alla porta del petto per uscire e lanciarsi sul prato. Al magazziniere viene voglia di scalciare gli scarpini di riserva, il team manager si muove nervosamente stretto nella morsa della giacca, dei movimenti spasmodici degli allenatori, poi, si potrebbero scrivere casermoni di libri. Cosa devono dire le riserve dei titolari, allora, che passano mesi e mesi della propria carriera a marcire in panchina con l’obbligo di dover osservare le prime scelte conquistarsi la gloria? Cosa deve dire Gabbiadini, che da quando si fa ombra con il Vesuvio ha dovuto scontrarsi con l’argentino dei record prima, e con il biondo polacco figlio della Provvidenza (e delle scelte di mercato), poi? Quasi come se a scriverlo fosse stato un certo Stanley Kubrick, l’epilogo nella sfida casalinga con il Bologna aveva ghiacciato l’animo già freddo del giovane Manolo. Certo, se lasci il posto in corso d’opera al titolare , che per una partita si è accomodato in panchina, e quest’ultimo decide il match con due perle, allora è anche la fortuna ad averti voltato le spalle. Ma il lavoro e il talento ripagano sempre, anche se c’è da aspettare parecchio. E quando ci si mette di mezzo anche la rabbia, quella che ti smuove le viscere e ti rende capace di sollevare il mondo intero, allora la strada verso la riabilitazione è già bella che asfaltata. La rete siglata al 24’ nella sfida di sabato sera contro il Chievo è un urlo di liberazione. Nella sua traiettoria a rientrare c’è la rinuncia definitiva al ruolo di semplice comparsa, l’eco della sfera che tocca la rete è un dolce melodia che merita di essere suonata in modalità loop. Nella sua esultanza liberatoria, infine, c’è una richiesta esplicita diretta a chi fa le scelte e a chi era lì presente perché senza l’azzurro non può vivere. “Io sono tornato, voglio il posto che mi spetta, i riflettori che merito e, se mi va, mi prendo anche l’altro azzurro”, è il messaggio neanche tanto nascosto che pulsava nel cuore di Gabbiadini. Il genio della balistica ha ripreso a disegnare traiettorie impossibili. Un saluto alla sua gente con il cinque battuto al polacco, gli applausi finalmente convinti che scandiscono i suoi passi verso la sua odiata panchina: un idillio. E adesso sì che, indossata la giacca, il viaggio della cerniera alla volta del collo può dirsi felice. Arrivederci rabbia, ora è il tempo dei sorrisi. Ah, quanto è bella la vita dopo un gol…