Popolo duro e fiero quello serbo, un popolo dal quale i piacioni italici tutti volemose bene sono sempre stati distanti. E, diciamoci la verità, i serbi nella loro ruvidezza non ci sono mai stati neanche troppo simpatici. Eppure grondano di storia e di imperiali memorie, ma è appunto la storia che dice di due genie tanto differenti.

Quello di Sinisa Mihajlovic col popolo italiano è però un sodalizio che dura da tanti anni: al burbero, sincero, incazzoso, genuino allenatore abbiamo tutti un po’ imparato a voler bene. Giocatore strabiliante di Lazio ed Inter, allenatore senza peli sulla lingua del Milan lasciato in macerie da Galliani/Berlusconi. È stato uno dei pochissimi non yes man insieme a Seedorf, uno dei pochi a dire in faccia al padrone che la rosa faceva schifo, mentre Suma beatificava la proprietà di turno perché non sbagliava una mossa.

Avessimo oggi a centrocampo un uomo così potremmo puntare dritto al titolo. Averlo avuto in panchina, seppure in una delle tante versioni del Milan disgraziato dell’ultimo decennio è stato un onore che ha per un anno risvegliato le coscienze dei baciapile (o forse no). Ricordo le sue conferenze stampa: scariche elettriche contro le domande idiote, quella freddezza che poteva sembrare crudeltà, ma un cuore che ribolliva professionalità e dedizione.

Ora è addio al calcio, così di colpo, da un borgo spettacolare delle Dolomiti, perché la guerra nella vita non si combatte sui campi da gioco, ma quando ti ritrovi su un letto pieno di cannucce, cateteri e siringhe.
Non so come finirà la battaglia di Sinisa: a 50 anni raccogliere le forze per la sfida più difficile e debilitante può non essere così facile anche per un gladiatore.

Ciò che mi preme è ricordarti con immensa stima e, sì, perché no, con molto affetto.