L’annuncio ufficiale è di oggi ma era vagamente nell’aria da un po’ di tempo: Daniele De Rossi, dopo 18 stagioni, lascia la Roma.
Per lui più di un gruppo, più di una squadra, più di una società: la squadra giallorossa della Capitale è sempre stata la sua seconda pelle.
Un’intera carriera dedicata a questi colori, anche quando, al culmine della propria carriera, le sirene di top club italiani ed internazionali avrebbero potuto spezzare quel legame formidabile. Un rapporto stupendo che, però, si interromperà al termine di questa travagliata stagione.

Il 26 maggio, Capitan Futuro, divenuto due anni fa capitano effettivo, saluterà l’Olimpico, la casa della squadra del suo cuore, contro il Parma, in un incrocio storicamente curioso: il 17 giugno 2001, proprio contro i gialloblù, il popolo romanista visse il giorno del terzo tricolore, l’ultimo finora, e adesso, invece, saluterà un pezzo della sua storia.

Centrocampista tra i più forti della sua generazione, rude, generoso, sempre pronto a metterci la faccia, è l’icona della voglia di rappresentare la squadra della propria città.

Un’autentica bandiera.

Un percorso professionale iniziato ufficialmente nella stagione post-scudetto, nella gara di Champions League contro l’Anderlecht subentrando a Tomic, il 30 ottobre 2001; l’esordio nella stagione successiva ed il primo goal contro il Torino, fino alla titolarità fissa, gli consentono di ottenere la convocazione a soli 21 anni in Nazionale, di cui diventerà uno degli eroi del 2006.
La sua avventura iridata è fuori dagli schemi: titolare fisso, nel secondo turno del girone commette un grave peccato di ingenuità, rifilando una tremenda gomitata al calciatore degli USA McBride, che gli costerà 4 giornate di squalifica.
Il suo rientro in finale sarà però fondamentale: subentra al capitano giallorosso che lo ha preceduto, Francesco Totti (una sostituzione che a posteriori appare quasi mistica), e segnerà anche il terzo rigore della serie che avrà nell’epilogo della rete di Fabio Grosso il suo apice.

Il titolo di campione del Mondo, a neanche 23 anni compiuti, da protagonista, non è da tutti, anzi.

Le due successive stagioni gli regalarono i primi trionfi con la Roma, restando gli unici: 2 Coppe Italia e 1 Supercoppa Italiana.

Un palmares scarno rispetto al valore calcistico e simbolico di Daniele.

Sebbene lui abbia più volte ribadito che il suo unico vero rimpianto è quello di non avere la possibilità di regalare più di una carriera alla squadra della sua città, il rammarico per non aver vinto quello Scudetto festeggiato quando ancora faceva parte delle giovanili, per un campione abituato ad inseguire la vittoria, c’è senz’altro, come fatto anche alludere nella conferenza di oggi.

Lo scudetto realmente sfiorato nel 2010, con quell’inciampo contro la Sampdoria di Pazzini che diede il via alla rimonta che valse il Triplete interista, è forse stata la più grande occasione mancata nella sua carriera.

Gli ultimi anni, prima con Garcia e poi con Spalletti, non sono bastati per ridurre il gap contro una Juventus inarrestabile, ma ha avuto modo di togliersi un'immensa soddisfazione in Champions nella scorsa stagione: la rimonta memorabile contro il Barcellona di Messi, che valse la semifinale (traguardo conquistato solo una volta nella storia della Lupa) sarà qualcosa che si porterà per sempre nel cuore, con un popolo che per una notte ha visto i propri condottieri superare i limiti.

E, come per Giannini, che ufficialmente vinse lo scudetto 1982/83 ma senza scendere mai in campo, anche lui rientra nella cerchia di quei grandissimi calciatori che magari hanno vinto tantissimo (nel suo caso addirittura il Mondiale) ma che, per motivi diversi, non sono mai riusciti ad acciuffare uno scudetto.

Scegliere il cuore, la maglia per cui si tifa da ragazzini, la passione sfrenata, spesso provoca perdere la possibilità di raggiungere degli obiettivi che, per le qualità individuali, sarebbero assolutamente alla portata.

E allora, dopo il doveroso ritratto per uno dei più grandi calciatori italiani (e non solo) degli ultimi 20 anni, vediamo quali sono i calciatori più forti che, nonostante le loro qualità eccelse, non sono mai riusciti a festeggiare un qualsivoglia Campionato nazionale.

-STEVEN GERRARD: a parere di chi scrive, è il più grande mistero che gli Dei del calcio abbiano voluto serbarci.

Uno dei più forti centrocampisti di tutti i tempi, Membro dell’Ordine dell’Impero Britannico per meriti sportivi, è stato l’emblema del Liverpool, cresciuto nel suo club fin da bambino e innamorato della maglia Reds oltre ogni ragione, anche a costo di non vincere mai quell’agognata Premier League.

E il destino, quando ci si mette, è tremendamente beffardo: già nel 2008/09 un calo di risultati rovinò la possibilità di vincere un meritato torneo, favorendo la vittoria dei Red Devils, ma è nella stagione 2013/14, quando sembrava tutto apparecchiato per il gran momento a due giornate dal termine, che una sua clamorosa scivolata aprì la strada alla vittoria del Chelsea ad Anfield sancendo, di fatto, l’addio a quel titolo tanto inseguito.

Le sue gioie più grandi arriveranno dall’Europa: nel 2001, vinse la Coppa UEFA insieme all’astro nascente Owen ma è soprattutto la finale di Istanbul del 2005, con la rimonta che ancora fa venire gli incubi ai tifosi del Milan, che resterà per sempre come manifesto della sua gloriosa carriera che, pur senza campionato, lo ha reso tra i più forti di sempre.

-IL PRIMO PALLONE D’ORO: forse non tutti sanno che Stanley Matthews, il primo calciatore ad avere vinto il prestigioso premio di France Football a 41 anni, non è mai riuscito a trionfare in campionato.

Il mago del dribbling era considerato tra i talenti più puri del calcio anglosassone e la sua dedizione era encomiabile: si era autoimposto un rigido regime alimentare, con digiuni calendarizzati e molta frutta e verdura nei suoi pasti; inoltre, nei suoi allenamenti mattutini, utilizzava delle scarpe piene di piombo per correre in spiaggia, in modo tale che al rientro potesse sentire i piedi molto più leggeri e avere la sensazione di essere più veloce, dote, questa, lodata anche da molti suoi colleghi.

Grazie anche a questa condotta, giocò fino all’età di 50 anni, in una carriera divisa tra due squadre (eccetto una breve parentesi al Toronto): lo Stoke City, con cui aprì e chiuse la sua brillante storia per un totale di 19 anni, e il Blackpool, giocando dal 1947/48 fino al 1960/61.

Con quest’ultima ottenne il suo unico grande trofeo, la FA CUP del 1952/53, ribattezzata non a caso “la finale di Matthews”: la sua prestazione fu talmente decisiva da meritarsi tale menzione, sebbene lui abbia sempre rifiutato e cercato di sottolineare che la vittoria fosse quella del gruppo.

Tra le altre cose, non ricevette mai alcuna sanzione disciplinare grazie alla sua capacità di essere sempre concentrato sul pezzo, senza mai perdere la testa.

Semplicemente, un giocatore d’altri tempi.

-GLI EROI INGLESI DEL ’66: la patria del football ha vinto il Mondiale casalingo oltre mezzo secolo fa, unico alloro internazionale della loro storia finora.

Due nomi su tutti, però, hanno visto in quel trionfo la loro gloria, che non ha trovato il giusto riconoscimento tramite i trofei dei club, proprio come De Rossi.

Parliamo del capitano Bobby Moore, gentlemen ed icona sportiva, capace di reagire anche a dei problemi personali terribili.

Il suo nome è legato agli Hammers: con il West Ham, prima della grande impresa, vinse una FA Cup, una Community e, nel 1964/65, la Coppa delle Coppe contro il Monaco 1860, ma mai riuscì a vincere il campionato.

Stesso discorso per il numero uno Gordon Banks, scomparso pochi mesi fa, fondamentale per la conquista della Coppa del Mondo: anche lui, a parte qualche fugace esperienza, si divise tra due club, il Leicester, club in cui militò fino al 1967, e lo Stoke City, con cui chiuse la carriera.

La sua parata su Pelé nel 1970 è ancora oggi considerata da molti critici la più bella di tutti i tempi.

Entrambi furono autentici protagonisti del successo British, che li portò ad essere idolatrati dagli amanti del calcio d’Oltremanica e, aggiungo io, non solo.

-TREVOR FRANCIS: forse, oggi, chiunque pagherebbe oro per avere il palmares del nativo di Plymouth.

Dopo aver militato per molti anni nel Birmingham, si trasferisce nel Nottingham, squadra di culto a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, che aveva appena vinto la Premier.

Sotto la guida del mitologico Clough, vinse due Coppe dei Campioni consecutive, segnando tra l’altro il gol che decise la finale del 1979 contro gli svedesi del Malmoe.

I continui infortuni pregiudicarono il suo rendimento, anche quando venne in Italia: il primo trofeo ufficiale vinto dalla Sampdoria fu la Coppa Italia 1984/85, di cui lui fu capocannoniere con 9 reti.

Un calciatore che si tolse tantissime soddisfazioni, tranne una: quella di poter fregiarsi del titolo di campione nazionale.

Ma, con due Coppe dei Campioni in tasca, siamo certi che in molti farebbero carte false per essere al suo posto.

-LA FAMIGLIA DJORKAEFF: molti conoscono Youri, autentico fuoriclasse che giocò per 3 stagioni con l’Inter.

In pochi, però, sanno che il cognome Djorkaeff rappresenta una sorta di dinastia per il calcio francese.

Il padre Jean giocò nelle tre grandi di Francia: Lione, Marsiglia e PSG ma, nonostante fosse un ottimo difensore, non riuscì ad andare oltre alla vittoria di qualche coppa nazionale.

Il figlio fu invece molto più esplosivo e vincente: campione del Mondo e d’Europa con la Francia, vinse anche diversi titoli internazionali a livello di club (1 Coppa delle Coppe con il PSG e la Coppa Uefa del ’98 con la squadra meneghina) ma mai riuscì a vincere lo Scudetto.

La sua rete contro la Roma è ancora oggi riportata come una delle più belle prodezze mai messe a segno su un terreno di gioco.

Anche il fratello, Micha, tentò la strada di calciatore, con molta meno fortuna.

-KLAUS FISCHER: forse ai più questo nome non dirà granché, ma stiamo parlando del secondo marcatore più prolifico di sempre della storia della Bundesliga.

Centravanti letale, devastante con le sue reti acrobatiche (una su tutti, la rete in semifinale contro la Francia nel Mondiale 1982), legò il suo nome allo Schalke 04, con cui vinse una Coppa di Germania e un titolo di capocannoniere.

La parte finale della carriera la divise tra Colonia e Bochum: pur senza un trionfo nazionale, è rimasto impresso nelle menti degli appassionati per i suoi goal spettacolari, che gli valsero molteplici premi individuali.

-GARY LINEKER: se alcuni di questi nomi non dovessero ancora aver colpito nel segno, stiamo pur certi che a leggere questo nome, a più di qualcuno, verrà la tentazione di andare a cercare su Google se ciò che sto riportando corrisponda a realtà.

Lineker, uno dei più grandi attaccanti della storia del calcio negli anni ’80, non ha mai vinto un campionato.

Fa impressione, ma è così: calciatore correttissimo (mai ricevuto un’ammonizione o un’espulsione), terzo marcatore di tutti i tempi della Nazionale dei Leoni, crebbe nel Leicester, con cui visse i primi anni di carriera tra First e Second Division, riuscendo, però, nel 1984/85, a laurearsi capocannoniere.

Lo prese l’Everton, con cui vinse la Supercoppa e si riconfermò re dei bomber con 30 reti, che valsero la convocazione a Messico ’86.

Nell’edizione di Maradona, fu lui a troneggiare nella classifica finale dei bomber con 6 centri.

Quell’estate andò al Barcellona, ma, nella Liga, dovette fare i conti con il Real cannibale di quell’epoca: riuscì comunque a entrare nel cuore dei tifosi blaugrana grazie ad una tripletta che stese i Blancos nel derby del 1987.

Con i catalani vinse una Coppa di Spagna e la Coppa delle Coppe del 1989 in finale contro la Samp di Vialli e Mancini.

Fu l’ultima grande occasione per vincere quel campionato mai ottenuto.

Adesso è un commentatore TV molto noto.

-EL NINO, CROCE E DELIZIA: Fernando Torres è stato uno dei più grandi rimpianti del calcio moderno.

Centravanti devastante, talento precocissimo, è forse stato il più forte del pianeta per un periodo nel 2008, quando, abbandonato il suo grande amore Atletico per il fascino di Liverpool, disputò la più bella stagione della sua carriera, segnando 33 reti totali, e trascinando in estate la Spagna ad avviare il suo ciclo vincente, conquistando l’Europeo con un suo goal decisivo in finale.

Vinse poi in Sudafrica il Mondiale e, fino al passaggio al Chelsea nel gennaio 2011, era un top nel suo ruolo.

Il passaggio ai Blues sembra segnare la sua carriera in un modo inspiegabile: vince tanti titoli, soprattutto internazionali, ma il suo rendimento cala e anche la sua felicità sul terreno di gioco sembra svanita.

Il periodo rossonero è infelice, e il ritorno a Madrid si chiude con una soddisfazione: la vittoria della Coppa UEFA, che gli permise di alzare il cielo il primo trofeo con la squadra di cui faceva il tifo da sempre.

Un cannoniere implacabile da giovane, bruciato troppo presto, che però vanta un ricchissimo palmares, invidiabilissimo, se non fosse per quel neo: nessun campionato.

Ma Fernando resterà sempre il golden boy degli anni Duemila.

ANTOGNONI: questa compilation si chiude con un nome italiano tra i tanti, meritevoli, che avrebbero meritato di vincere il tricolore.
Il primo, dal cammino molto simile a DDR, è Antognoni.
Nato in Umbria, si legò ai colori viola in modo indissolubile, divenendone simbolo tutt’oggi venerato dal popolo fiorentino.
La Coppa Italia 1974/75 contro il Milan rimane il suo unico successo a livello di club.
L’anno 1982 fu per lui qualcosa di tremendo da descrivere: con la Viola sfiorò lo scudetto, che dovette cedere all’ultima giornata alla Juventus, a causa del pareggio contro il Cagliari, che ancora fa vibrare i nervi dei sostenitori toscani a causa di una rete di Graziani probabilmente regolare annullata, che acuì la rivalità storica tra i due club.

Quella giornata maledetta venne dipinta da Antognoni come il suo più grande dispiacere sportivo, insieme ad un altro evento contrastante: nel Mondiale spagnolo, fu uno dei pilastri della Nazionale di Bearzot, ma un infortunio (uno dei tanti che hanno caratterizzato la sua storia calcistica) lo privò della gioia di scendere in campo per la finalissima.

Ma come per Daniele, rappresentare una maglia può dare più valore di qualsiasi altra competizione o titolo.

 

Questi sono probabilmente i più grandi nomi che non hanno mai vinto lo Scudetto.
Ne sono stati tralasciati molti altri che meritano comunque una menzione: Beppe Signori, goleador implacabile, diverse volte capocannoniere della Serie A, ma forse mai militante in un club che potesse regalargli la possibilità di competere per lo Scudetto; Dino Baggio, profilo di spessore e di tenacia, diviso principalmente tra Juve, Parma e Lazio, che non riuscì mai a vincere il tricolore nonostante la bellezza di 3 Coppe UEFA; o, ancora, Carragher, bandiera senza tempo del Liverpool, Le Tissier, che non volle mai lasciare il Southampton, o ancora i vari Mendieta e Luis Garcia, centrocampisti spagnoli di livello internazionale.

Tra i calciatori in attività, invece, ci sono due calciatori che ancora non hanno mai vinto il titolo nonostante siano ormai ai vertici del calcio mondiale: Griezmann, stella della squadra di Simeone, che non è mai riuscito in questi 5 anni a portare la Liga nella sua parte di Madrid; e Harry Kane, icona Spurs e della Nazionale inglese, che non ha ancora marchiato la Premier.

Infine, mi rivolgo a te, Daniele De Rossi.
Sei in buona compagnia: non rammaricarti di non aver vinto troppo, di non aver portato lo Scudetto che avresti meritato, perché, a volte, anche non vincere può essere poetico, forse anche di più della vittoria stessa.
Con te lascia Roma un pezzo di storia del calcio, un’autentica certezza per chi è cresciuto con il tuo nominativo sempre presente con la stessa maglia in ogni campionato.
Da quel che hai detto, potresti continuare a giocare: sia mai che, gli Dei del calcio, non ti regalino qualcosa di inaspettato, un colpo di scena degno delle serie TV del momento.

Qualunque cosa succederà, però, il segno lo hai lasciato, come tutti i calciatori citati.

Perciò, auguri per tutto.

 

Un semplice amante del calcio.