“Arriva. Vedrai che arriva”. “Dici? Magari!”. “Se arriva sarà scudetto. O almeno saremo competitivi”. “Certo! Se arriva riempiamo il San Paolo. Le altre squadre verranno al Tempio e poseranno i punti”.

Il calciomercato è così. Sogni che meritano di essere sognati, indipendentemente dal fatto che saranno o meno realizzati. Giornate sotto l’ombrellone e serate a farsi una birra con gli amici, a immaginare giocatori con addosso la sacra casacca azzurra. E per tutti i tifosi, di tutte le squadre, è così: ognuno sogna un nuovo acquisto per la propria squadra, un nuovo idolo da osannare, una maglietta da regalare al figlioletto.

Il calciomercato è il simbolo dell’estate. Quest’anno sarà diverso, perché il covid ha spostato in avanti la classica finestra estiva di mercato. Anche questa volta, però, seppur in differita rispetto al solito, ci sarà il solito rincorrersi di voci, notizie certe, trattative complicate, contratti firmati, presentazioni e proclami.

Eppure ci fu un’estate, tanti anni fa, in cui il mio sogno di tifoso non riguardava l’arrivo di un nuovo fuoriclasse, ma era legato alla permanenza di un calciatore che già indossava la maglia azzurra. Uno che radiomercato dava sicuramente in partenza verso altre squadre, ma io non volevo rassegnarmi.

Lo avevo amato, quel calciatore. Visceralmente amato, nei diciotto mesi passati all’ombra del Vesuvio, in serie B. Non solo per quello che aveva fatto in campo, che era comunque tantissimo, ma soprattutto per quello che era stato, per ciò che aveva simboleggiato: un capellone con la fascetta nei capelli, lo scatto fulmineo, la palla incollata al piede, un senso del gol fuori dal comune. Nella mente, però, non c'erano solo i goal, gli assist, le giocate da brasiliano: c'erano anche quei secondi interminabili trascorsi a prendere calci vicino alla bandierina del corner, quando il risultato era ancora in bilico e “il cornuto col fischietto”, come amorevolmente venivano chiamati gli arbitri dalle parti di Fuorigrotta, non ne voleva sapere di soffiare il triplice fischio.

Passai quell’estate andando ogni mattina a spulciare le edicole che incontravo nel tragitto da casa mia agli scogli puteolani, dove mi aspettavano gli amici di una vita per improbabili gare di tuffi a cufaniello. Una per una, passavo davanti a tutte le edicole lungo il percorso. Non me ne perdevo una, perché magari una esponeva la prima pagina del Corriere dello Sport, un’altra metteva in bella mostra la Gazzetta e per vedere quelle del Mattino o del Roma doveva incrociare la terza edicola. Se nessun giornale riportava la notizia della sua cessione, allora la mattinata cominciava bene e i tuffi a cufaniello sarebbero venuti certamente meglio del solito.

Poi un giorno arrivò la doccia gelata. Tutte le edicole mostravano la sua foto. “Schwoch: addio Napoli”, a caratteri cubitali. Non gli era stato rinnovato il contratto. Stefan Schwoch avrebbe indossato un’altra gloriosa casacca, di colore granata: quella del Torino. E sarebbe restato in serie B. Il mio Napoli, neopromosso in serie A soprattutto grazie a quel bolzanino che a Napoli non ci voleva proprio venire e poi a Napoli aveva fatto addirittura nascere suo figlio Jacopo (il 30 ottobre, ossia il nostro Natale, essendo il compleanno di Maradona), aveva deciso di fare a meno dei suoi gol e delle sue giocate. E di quei calci presi vicino alla bandierina, durante i minuti di recupero di una partita da vincere a tutti i costi.

Quella mattina, lo ricordo come se fosse oggi, raggiunsi i compagni sugli scogli col cuore amareggiato. Comunicai loro la notizia del giorno, quella che mai avrei voluto dare, leggere, sentire. Ci intristimmo tutti, all'istante. Pure il cielo cambiò umore: chiamò le nuvole e le sistemò proprio sopra il golfo più bello del mondo. E fece venire a piovere.