Smaltita l'ubriacatura e l'adrenalina del post partita di mercoledì, forse è il caso di ragionare, a mente fredda, su quello che è realmente successo in questo epico quanto assurdo ottavo di finale, che ci è costato centoventi e passa minuti di una miriade di sentimenti e sensazioni antitetiche.
In questo modo potremo, nel nostro piccolo, trarre alcune considerazione utili a prospettare e auspicare un cammino nella massima competizione europea, scevro - per quanto possibile e al di là dell'inevitabile elemento stocastico - di future sorprese negative.

Premetto che razionalmente, dopo il disastro dell'andata, ero convinto che non ce l'avremmo fatta a passare il turno. Tutte le statistiche, i precedenti, il buon senso, nonché le pessime prestazioni della squadra negli incontri precedenti l'ottavo di champions, non davano scampo ad alcuna elucubrazione positiva che avesse un appiglio di logicità.
Ma per fortuna, lo sport più bello del mondo è tale essenzialmente per due ordini di motivi: innanzitutto non sempre vince il più forte (esattamente come è accaduto all'andata); in secondo luogo la ragione e il calcio sono, ontologicamente incompatibili.
Esistono una infinità di elementi emotivi e psicologici che condizionano questo meraviglioso sport, sia per chi lo gioca e sia per chi lo vive come passione. Primo fra tutti la voglia di vincere, e non a caso, il motto della nostra amata Juventus si inspira proprio a tale assunto.

Da tifoso ci speravo; ci credevo.
Avevo una voglia matta di dimostrare al "nemico" giullaresco (uomo al quale in ogni caso sarò per sempre grato per essere stato uno degli artefici del memorabile 5 maggio), seduto sulla panchina degli ospiti, che noi eravamo la Juventus. Volevo stravolgerlo, scaraventandomi su di lui e sulla sua squadra con la forza di una valanga irrefrenabile che portasse con se tutta la storia del calcio italiano, ovvero la Juventus.
Per come sono andate le cose, pare che questo mio interno sentire sia stato moto e ragione dell'agire anche dei ragazzi e del loro tecnico.
E così, il giorno dodici marzo del duemilaediciannove, entrerà di diritto non solo nella storia della nostra società e nell'immaginario epico dei nostri cuori da tifosi, ma anche nella storia del calcio internazionale.

Tuttavia, come detto in esordio, il rocambolesco ottavo di finale, analizzato nel suo complesso, porta con sé ombre e luci; andata e ritorno per l'appunto. L'incredibile match di ritorno è stato fuor di dubbio un momento straordinario, che tuttavia si inserisce - per lo meno avrebbe dovuto essere tale se non ci fossimo colpevolmente complicati la vita - in quello che dovrebbe essere un cammino ordinario.

In altri termini, la qualificazione ai quarti di Champions era il minimo sindacale a cui doveva aspirare questa squadra, sopratutto alla luce degli investimenti del mercato estivo. Checché ne pensasse qualche "furbetto", mancarla avrebbe rappresentato un fallimento sopratutto a livello di progetto industriale oltre che una debacle tecnica causata da un avversario nettamente meno attrezzato di noi.
Quest'anno, a differenza di quanto si affermava expressis verbis negli anni precedenti - tempi in cui si parlava di "sogno" o di necessità di "entrare tra le prime otto" e mai di obiettivo concreto e principale (prima di prendere in giro la gente, nell'epoca dei social, bisognerebbe avere la buona creanza di andarsi a rileggere quello che si è affermato in passato) -, arrivare in fondo alla Champions e provare a vincerla è il principale, se non l'unico vero scopo del nuovo progetto industriale avviato dalla FC Juventus con l'acquisto di Cristiano Ronaldo.

Insisto sul discorso latamente imprenditoriale poiché, per dirla in soldoni, se tanti danari, con grossi rischi, si sono investiti è perché tanti danari si vogliono guadagnare, e se non vai avanti in Europa, questo assunto lapalissiano subisce un irrimediabile vulnus, compromettendo non solo le scelte economiche del presente ma anche, e soprattutto, quelle del futuro. Non mi riferisco solo agli introiti, seppur consistenti, strettamente legati alla competizione - per quanto non appaia del tutto irrilevante rimarcare che col passaggio del turno hanno pagato lo stipendio di CR7 -, pure a quelli commerciali e finanziari, altrettanto importanti, relativi ad esempio alle oscillazioni della borsa, ai danni di immagine e dunque ai ritorni in termini di merchandising etc.

Le fibrillazioni della società e del tecnico, antecedenti al match di coppa, al netto dei fomentatori di zizzania antijuventina (ce ne sono un'infinità in televisioni, sul web e nelle redazioni dei giornali sportivi, anche tra le più importanti), sono lì a dimostrare che siamo arrivati a un passo dal baratro. E per frenare o attutire la discesa agli inferi in caso di eliminazione, non sarebbe stato certo sufficiente l'ottavo scudetto consecutivo.

Ebbene, in ragione di ciò, bisogna porci alcune domande fondamentali.
La vera Juve è quella vista mercoledì o è più vicina alla squadra che nel corso di una intera stagione, fino alla scorsa sera, camminava in campo disorganizzata e senza quasi mai dare la sensazione di poter dominare qualunque avversario, anzi, al contrario, capace di subire goal da squadre di rango infinitamente inferiore?
Questo assurdo ottavo appena concluso, quale di queste due squadre ci restituisce. Quella dell'andata o quella del ritorno?
Quale è (sarà) il vero Pjanic? Quello indolente, lento e mai decisivo della gran parte della stagione o il giocatore coraggioso, a tratti arcigno, e meravigliosamente ordinato, capace di fare il direttore d’orchestra senza sbagliare una nota, visto contro il Madrid.
Quale è (sarà) il vero Allegri? Quello confuso, disorganizzato, conservativo della partita dell’andata, e della gran parte delle partite viste durante tutta la stagione, o il fine stratega che ha mandato i suoi all’arrembaggio mercoledì scorso senza sbagliare una mossa?
Ho preso a paradigma un giocatore e l’allenatore per liberare il campo dall’argomento principale che in queste ore troneggia nelle discussioni (amene) interne al popolo juventino, ossia la diatriba sterile fra gli allegriani e gli anti allegriani. 

Tornando al punto, mi sembrano domande legittime, quelle appena poste, per ciò a cui abbiamo assistito fino ad oggi. Perché sarebbe da ingenui pensare che in una serata, se pur mitica, la Juve abbia risolto tutti i problemi palesati in più di sette mesi di partite giocate.
Tutti speriamo ovviamente che qualcosa si sia sbloccato nella mentalità dei giocatori; che una maggiore consapevolezza sulle proprie potenzialità sia cresciuta in ognuno di loro.

Ogni juventino che si rispetti, per quanto possa approvare o meno le scelte e lo stesso modo di essere e di intendere il calcio del tecnico (io sono tra quelli che non lo condivide, e non mi nascondo) non può che appoggiare e sostenere il proprio allenatore, nella speranza che anch’egli, dopo anni di UCL capisca definitivamente che i ragionamenti ragionieristici e l’eccessiva speculazione strategica, sono funzionali a competizioni lunghe ma molto meno efficaci in quelle brevi, per di più contro avversari con valori tecnici e atletici nettamente superiori a quelli che militano nel torneo nazionale.

Purtroppo le risposte certe, come sempre del resto, le avremo solo dal campo. Tuttavia, questa volta come non mai, abbiamo tutto il tempo per dedicarci anima ( psicologicamente) e corpo (atleticamente) alla conquista della maledetta.
Perché, caro mister, lei che è uno juventino di "passaggio", non potrà mai capire cosa significhi per noi juventini di sempre vincere questo trofeo.

Fino alla fine e… oltre.

P.s.

Ovviamente tutte le corbellerie che ho scritto si possono racchiudere in un’unica considerazione tranchant… nel calcio puoi chiamarti Allegri o Guardiola, Peres o Agnelli….ma se non hai CR7 o Messi….non vinci una cippa… Do you understand Arrighe?