Mercoledì sera si è interrotta la favola europea dell’Atalanta, non tanto per mano del gioco strabiliante del Paris Saint Germain, quanto per mano del capolavoro tattico di Tuchel. E con l’eliminazione ai quarti di Champions League della Dea, si infrange anche il sogno italiano di portare avanti almeno una squadra nella massima competizione europea. Da italiani, quindi, non ci resta che piangere…anzi no, non ci resta che tifare Inter in Europa League.

Nel post partita di PSG-Atalanta, tutti hanno elogiato la prestazione della compagine bergamasca, sottolineando il rammarico per un’impresa sfumata sul filo di lana. E una vittoria, nonché un approdo in finale (non impossibile visto il passaggio del turno del Lipsia), avrebbe colorato a tinte eroiche la già bellissima favola nero-azzurra: in un anno così complicato per Bergamo, il raggiungimento di un simile traguardo sarebbe stato un riscatto per l’intera città. E sarebbe stata la classica impresa italiana dal sapore romantico. In effetti lo stesso Gasperini aveva paragonato la sua squadra all'Italia del 2006 che, pur non partendo con i favori del pronostico ma forte del gruppo e delle sue grandi motivazioni, si era laureata Campione del Mondo. Perché noi italiani siamo un po' così, ci esaltiamo nei momenti difficili e tiriamo fuori orgoglio e generosità che ci portano a dare più del 100%, riuscendo a sopperire, con il carattere, a limiti di altra natura. Ma a volte, come ieri sera, le motivazioni non bastano. E la mia non vuole essere una critica all'Atalanta, lungi da me. Per tale motivo, prima di andare avanti nell'analisi, voglio fare una digressione proprio per rendere merito a questo splendido gruppo: una società sana guidata da un presidente che è al tempo stesso imprenditore e tifoso; un team di dirigenti sportivi di livello, capaci di scovare talenti nelle cantere di tutta Europa; un allenatore che sa insegnare il calcio ai giovani; un gruppo di ragazzi esuberanti e sfrontati che con il talento e l’entusiasmo sopperiscono alla mancanza di esperienza.

Tuttavia, pur riconoscendo la bontà del progetto Percassi e i meriti della squadra bergamasca, vorrei muovere delle critiche, o meglio sollevare degli spunti di riflessione che non riguardano solo l'Atalanta ma l’intero movimento calcistico italiano, a mio avviso, vittima di un colossale paradosso. E per farlo vorrei partire dalla dichiarazione di Raymond Domenech - evidentemente ancora scosso per quel Mondiale perso contro l'Italia - che questa volta però ha detto, se pur nei modi sbagliati come spesso gli accade, una grande verità. Twitta così l'allenatore transalpino :«Complimenti al PSG per le emozioni che ci ha regalato, e grazie a Gasperini per i cambi effettuati nel finale. Questa partita dimostra che il fatto che gli allenatori italiani siano i più bravi tatticamente, sia solo una leggenda. Tuchel ha avuto la meglio». E' vero, Tuchel ha compiuto un capolavoro tattico degno della migliore tradizione calcistica italiana, adattando il gioco della squadra alle circostanze e alle caratteristiche dell'avversario. Con Verratti out per infortunio, Di Maria out per squalifica e Mbappé a mezzo servizio, per tre quarti di gara il PSG si è difeso con umiltà ma con ordine e tenacia dagli attacchi spavaldi dei giovani incursori nero-azzurri - tra l'altro limitando al minimo i danni - e lasciando licenza di brillare solo a uno che di nome fa Neymar da Silva Santos Júnior, uno che è nato per giocare a calcio. Nell'ultima mezz'ora di gara, invece, con l'Atalanta ormai sulle ginocchia e privata del fulcro del suo gioco - il Papu usciva al 59' per infortunio- Tuchel opera gli ultimi cambi e inserisce il giovane talento francese che, già complicato da marcare in condizioni normali, a pochi minuti dalla fine e in dieci uomin i- nel frattempo l'Atalanta aveva perso anche Freuler - diventa imprendibile. In un paio di minuti il duo micidiale Neymar-Mpabbé (anche se i mercatori saranno altri) premia la flssibilità tattica di stampo italiano di Tuchel e punisce, in modo oltremodo severo, l'immobilismo tattico di Gasperini. Sì perché l'Atalanta, nonostante il forfait di Gomez, nonostante uno stremato Zapata e nonostante le contromosse dell'avversario è rimasta ferma al copione iniziale: pressing alto e aggressivo che, a corto di forze e con la scheggia Mbappé e il talento Neymar, si è tradotto in un suicido. Detto che l'Atalanta con ogni probabilità questa partita l’avrebbe comunque persa, perché la differenza di qualità tra le due rose è innegabile, il capolavoro tattico realizzato da Tuchel è innegabile e mi porta alla riflessione sul paradosso del calcio italiano: un calcio che, nell'assurdo tentativo di scimmiottare l'esplosività atletica degli inglesi da un lato e il tiki taka spagnolo dall'altro, ha finito con lo snaturarsi, dimenticando i punti cardine che hanno fatto della scuola calcistica italiana un esempio per tutti i campionati. Perché è giusto modernizzarsi, è giusto imparare dalle altre filosofie calcistiche. Ma è altrettanto giusto preservare quanto di buono c'è nella propria di filosofia: che non è per forza il catenaccio all'italiana, o almeno non solo quello, ma è l'intelligenza tattica, quella che un tempo si insegnava a Coverciano, di saper interpretare un calcio diverso a seconda delle fasi della partita e a seconda dell'avversario.

Tornando al parallelismo di Gasperini tra la sua Atalanta e la Nazionale Campione del Mondo, va detto che l'Italia del 2006 non ha vinto solo sull’onda dell’orgoglio e del contraccolpo emotivo che avevano fatto seguito allo scandalo Calciopoli. L'Italia di Lippi ha vinto perchè ha ancorato il suo gioco ai pilastri su cui si fonda la tradizione calcistica italiana: tra i pali il portiere più forte al mondo (oggi i portieri, tranne in rari casi, li cerchiamo altrove); in difesa, uomini che sapevano applicare il fuorigioco (oggi in Europa sono i nostri attaccanti a cadere spesso e volentieri nella trappola del fuorigioco); a centrocampo, un mix perfetto di tecnica e forza agonistica; in attacco, gente che, tra le altre cose, sapeva anche fare il contropiede (oggi più che farlo lo subiamo); in panchina, un CT che sapeva modulare il gioco della squadra in base agli interpreti e all'avversario, leggendo con grande intelligenza tattica i momenti della partita. E' vero da quella Nazionale del 2006 sono passati ben 14 anni, nei quali però gli altri, senza snaturarsi, hanno preso il meglio dal nostro calcio e noi, invece, ci siamo intestarditi a diventare quello che non saremo mai.

La mia non vuole essere né l'apologia anacronistica di un calcio superato né la difesa a tutti i costi del calcio all'italiana, tutt'altro. Ben vengano gli spunti e gli insegnamenti degli altri movimenti calcistici. Ben vengano il pressing alto e il tiki taka, ma solo se supportato dagli interpreti giusti e finalizzato al risultato: altrimenti il pressing alto rischia di trasformarsi in una manita e il tiki taka in un fraseggio sterile. Credo, quindi, che per tornare a vincere in Europa, il calcio italiano debba smettere di fingersi quello che non è e tornare alle sue origini, ai fondamenti tattici del tipico e tanto bistratto calcio all'italiana che, ed è questo il paradosso, ormai vediamo applicato più sui campi europei che in casa nostra.