In giorni in cui la comunità calcistica nostrana è in balia di un’oscillazione vorticosa tra speranze di riapertura del campionato e la bastonatura che le istituzioni non mancano di infliggervi periodicamente – chissà quanto artatamente - è ineluttabile che l’informazione si orienti in direzione del sempreverde della dialettica, del carburante dei sogni (e accelerante delle vendite e delle visualizzazioni): il calciomercato. In attesa, per ovvi motivi, di comprendere quando si svolgerà, come si configurerà, e quali saranno le cifre in ballo, i titolisti si sono scatenati nel propugnare i soliti grandi nomi, pur con significativi twist nell’associazione alle loro pretendenti– Cavani all’Inter no alla Juve, Pogba alla Juve anzi all’Inter – dando forma a quel giornalismo simil-divinatorio, “al buio”, che tanto va di moda ultimamente. Dal momento che chi vi scrive non possiede tali facoltà oracolari, non attendetevi un articolo di calciomercato: piuttosto è stata una notizia (o presunta tale) di calciomercato a suscitare in me una serie di riflessioni. Mi riferisco allo scambio Pjanic-Arthur tra Juventus e Barcellona.

Perché “sì”
Una premessa è d’obbligo: non stupisce affatto che le due società abbiano riflettuto o stiano riflettendo sulla possibilità di dare un più o meno cordiale benservito ai rispettivi giocatori. Per motivazioni diverse.
Capitolo Juventus: dopo i buoni auspici del Sarri versione estiva (“Pjanic dovrà toccare 150 palloni a partita”), il regista bosniaco ha mostrato di non avere nelle corde quell’upgrade tanto atteso, manifestando un evidente calo fisico e di tensione dopo un avvio di stagione tutto sommato in buona luce. Bentancur ha più volte ribadito a Sarri una più che valida candidatura, dimostrandosi affidabile in particolar modo in quei match di tenore più elevato in cui il collega pare sempre travolto dalla buriana del centrocampo. Peraltro, se guardiamo al Sarri napoletano e londinese, il suo regista/figlioccio/demiurgo Jorginho si presenta con caratteristiche molto diverse da quelle di Pjanic: palleggio svelto con tutti tocchi rivolti al compagno più prossimo, verticalizzazioni ridotte all’essenziale o comunque a lungo meditate; pur in forza di qualità tecniche e di inventiva decisamente superiori, il bosniaco applica una modalità di gioco molto differente, più “tradizionale”, da ricamatore e, all’occorrenza, pennellatore, e dispone soprattutto di un fisico molto meno imponente di quello dell’oriundo, il che lo obbliga, quasi in ogni circostanza in cui perde il pallone, a causare un fallo da ammonizione.
Capitolo Barcellona: nell’estate 2018, l’acquisto di Arthur Melo, ventunenne assai promettente del Gremio, per la cifra non indifferente di 30 milioni più 9 di bonus, scatena le fantasie dei tifosi blaugrana e della critica, convinta di avere di fronte – alla buon’ora – il degno erede dei fasti di quei Xavi e Iniesta principali artefici, insieme a Leo Messi, dell’orgasmico Barcellona guardiolista. Un primo anno tra luci e ombre, un secondo a contendersi il posto con i vari Vidal, Rakitic, Sergi Roberto, cui si è aggiunto l’acquisto del mercato estivo 2019 Frenkie de Jong (anche lui peraltro al di sotto delle attese), in cui riesce a ritagliarsi, a oggi, appena 16 presenze in Liga.

Perché “no”
Insomma: un’operazione che sembrerebbe accontentare entrambe le squadre. Un affare per due grandi club, uno scambio – modalità che, a causa della crisi economica globale, sarà necessariamente incentivata - tra due grandi giocatori, non dissimili in quanto a valore tecnico e di cartellino, desiderosi di riscattare altrove le aspettative deluse - insomma, un classico estivo. Eppure, a mio avviso, si tratterebbe di un domino potenzialmente fallimentare, una soluzione ad un problema contingente che ne lascia aperto uno di ben più estesa portata, la toppa di chi non ha compreso la direzione in cui il calcio moderno sta inesorabilmente procedendo, e segnatamente in relazione a quello che il lessico impolverato dei metodisti definisce (definiva) “centromediano”, o, appunto, “centromediano metodista”. Ritengo infatti che sia questo il ruolo sottoposto, al giorno d’oggi, in uno scenario in continua evoluzione per quanto riguarda i ruoli – che, come ama ripetere qualcuno, sono progressivamente sostituiti da “funzioni”- ai più consistenti mutamenti evolutivi. Se infatti, fino agli inizi di questo decennio, le grandi squadre europee erano tutte dotate di un regista fantasioso, dotato di tecnica sopraffina e contestualmente di un fisico nella maggior parte dei casi esile – Xavi, Modric, Pirlo, Thiago Motta, Obi Mikel, solo per fare alcuni nomi collocati su un gradiente di abilità tecniche abbastanza ampio – oggi, per il ruolo/funzione del cosiddetto “uomo davanti alla difesa”, sembra che le doti fisiche siano diventate un requisito ineludibile. Basta guardare a interpreti come Casemiro, Rodri, lo stesso Jorginho, Sissoko, il sempreverde Busquets, Thomas Partey, o, per guardare in casa nostra, al salto di qualità – e soprattutto di quantità – che il Napoli di Gattuso ha conosciuto in seguito all’inserimento nella formazione titolare di Diego Demme. Pare insomma, estendendo la questione anche alle altre posizioni del centrocampo, che ormai ci si accontenti di un interprete di bassa statura e dalle doti fisiche non particolarmente spiccate se e solo se le sue doti di arcigno “incontrista” lo rendono assolutamente essenziale alla causa – la formulazione è ovviamente semplicistica, ma credo renda l’idea. Ritengo che in questo senso esistano alcuni giocatori in grado di rappresentare l’epifania del centrocampista degli anni ’20, modello prototipico e archetipico di una fisicità straripante applicata ad una tecnica sopraffina, un minotauro dei tempi moderni dotato di doti spiccate in fase offensiva, e di una discreta propensione al gol, abbinate all’abilità nel ripiegamento difensivo e nel recupero-palla; gli esempi migliori, in questo senso, sono tre giocatori destinati indubitabilmente a segnare il destino prossimo del calcio mondiale, pur avendo età anche significativamente diverse: mi riferisco a Paul Pogba, a Sergej Milinkovic-Savic, e, in prospettiva ancor più a un giocatore che personalmente suscita la mia fantasia al di sopra, forse, di ogni altro in questo momento, ovverosia Federico Valverde del Real Madrid, giocatore dotato di una forza muscolare oltreumana abbinata ad una corsa, ad una qualità di tocco e ad una visione di gioco che, tutte insieme, fanno gridare al miracolo o, più laicamente, al crack.

Una spiegazione e una suggestione
In conclusione: l’affare, presunto o possibile, tra Juventus e Barcellona, appare, stanti queste premesse, più che mai inopportuno. È sorprendente che proprio due società di questo calibro siano in ritardo, rispetto alle altre superpotenze, nel comprendere come il calcio stia cambiando, o sia già cambiato in relazione a princìpi di gioco fondamentali come quelli assegnati al ruolo in questione. La ragione potrebbe tuttavia non essere così oscura: si tratta delle squadre che hanno annoverato tra le proprie fila, nella prima metà del decennio, i tre più grandi centrocampisti di questo secolo – Pirlo, Iniesta e Xavi, e chi se no? – ed è verosimile che facciano ancora molta fatica a svincolarsi dal prototipo del regista della vecchia scuola.
Mi permetto allora di rivolgere a entrambe una sollecitazione: e se, piuttosto che inseguire la chimera del ritorno alle delizie del passato, e cercare di sostituire l’insostituibile, si preoccupassero di trovare, anziché il nuovo-Pirlo, o il nuovo-Iniesta, il nuovo-Busquets? In tal caso, piuttosto che uno scambio, dovremmo attenderci un appassionante duello di mercato; la posta in palio, una fetta di futuro.