"Ma la senti che c'è un'aria diversa?". Quando con mia moglie, pisana, passo il confine tra la provincia di Firenze e quella di Pisa sulla Strada di Grande Comunicazione FI-PI-LI (a proposito complimenti ai nostri illustri politici che hanno dato un nome assolutamente geniale a un tratto di poco meno di cento chilometri...), la mia battuta viene quasi spontanea. Tra Empoli e S. Miniato, infatti, si volta verso il sottoscritto e sembra quasi che supplichi la mia esternazione. 
Per noi fiorentini, il Granducato di Toscana era troppo "ampio"; il nostro habitat naturale sarebbe stato sicuramente il Principato di Firenze. La nostra cerchia cittadina difesa, appena passato l'Arno, da Porta al Prato ci rende più sicuri dalle "invasioni straniere".

Tutto questo, l'avrete capito, si chiama Campanile. In Toscana, rispetto alle altre regioni, è ai massimi livelli.

Alla classica cena fatta con gli amici per far conoscere la mia dolce metà, una volta che i calici furono in cielo, Fabrizio, come da rituale, esclamò: "Un brindisi a questi ragazzacci: gioia, serenità e amore. Anche se con "una di Pisa" non si pole". Lo disse con tanta enfasi che poco tempo dopo ci fece incontrare l'attuale moglie: è di Livorno! Confermo tutto, compreso il "non si pole"; insomma non è fattibile...
Una regola inderogabile di questo gioco vuole che il toscano, ma soprattutto il fiorentino, sia molto critico con se stesso, con la sua parte, la sua terra, la sua città o paese e, parlando comunemente, ne dica peste e corna con tutto il male possibile, trovando difetti e colpe anche dove non sono. Il suo interlocutore, che viene da lontano, si sente confortato a dargli ragione e comincia a sciorinare anche lui tutto quello che di peggio pensa sull'argomento, rincarando la dose, dicendone di cotte e di crude. Non sia mai: il toscano a questo punto s'inalbera, cambia registro e in un attimo, da critico disgustato, diviene un ammiratore sfegatato del suo paese che nessuno si deve permettere di vituperare o disprezzare: a farlo ci pensa da sé e gli altri se ne guardino bene: l'autoflagellazione è un piacere riservato agli abitanti e non è consentito ad altri.

Si parla, generalmente, di cose passate o che stanno passando, anche se si riscontra ancora la loro esistenza, certo meno grave e patologica, che nel passato quando arrivavano i Guelfi e spianavano la città costruita dai Ghibellini, tornavano quest'ultimi e lo rifacevano ai guelfi. Persiste, comunque, sempre più superficialmente, la tentazione della demonizzazione, ossia nell'individuare nella parte avversa l'elemento del tutto negativo, da estirpare, annientare come il male incarnato.
Del resto l'esempio ci viene da uno dei Padri della patria. In un passo famoso del Purgatorio (XXV, 40-54), descrivendo il corso dell'Arno, Dante trova il modo di chiamare porci i casentinesi "par che Circe li avesse in pastura" e ringhiosi gli aretini "Botoli trova poi, venendo giuso, ringhiosi più che non chiede lor possa".

Di questa materia si può dare solo un piccolo campionario, tale è la sua vastità. I blasoni popolari, vale a dire quei detti che costituiscono le formule con le quali i popoli si prendono in giro tra loro, ci avvertono che non correva buon sangue tra Firenze e Prato, tra Firenze guelfa e Pisa ghibellina, tra Pisa che fu potenza imperiale e Livorno che le fu messa tra i piedi dal Granduca Cosimo I, che la povera Semifonte, per aver contrastato Firenze, sparì e che tra Firenze e Siena non c'è mai stato amore, tanto che è ancora vivo il detto "Per forza Siena!" quando si vuol significare che una cosa bisogna farla anche se ne manca del tutto la voglia. Si dice che, venuta Siena nella signoria fiorentina sotto Cosimo I, dovettero fare di necessità virtù. Per la festa di S. Giovanni, patrono di Firenze, quando tutte le città toscane portavano l'omaggio al Granducato, gli ambasciatori lo facevano tutti poco volentieri, ma quelli di Siena proprio a malincorpo.
Rispetto ai "cavallai", così chiamati nella mia città in... onore del Palio, noi fiorentini ci sentiamo talmente di un altro livello che, sovente, ci piace raccontare la storia dei confini delle vigne del Chianti, conosciute nel mondo, come Gallo Nero. Sapete perché i "nostri" territori sono molto più ampi rispetto a quelli senesi? 
Il simbolo utilizzato ha un’origine molto antica, era infatti impiegato dalla Lega del Chianti, un’istituzione politico-militare creata dalla Repubblica di Firenze, per il controllo del territorio del Chianti. Ma all’origine di questa scelta c’è un’affascinante leggenda. Si narra che nel periodo medievale, dopo anni di guerra sanguinosa tra la Repubblica di Firenze e quella di Siena per il controllo del territorio del Chianti, si decise di porre fine alla guerra e di determinare i confini delle due repubbliche attraverso una singolare competizione.
A un giorno stabilito, al primo canto del gallo, un cavaliere sarebbe partito al galoppo dalle rispettive città e nel punto in cui si sarebbero incontrati sarebbe stato disegnato il confine. I senesi scelsero un gallo bianco per far partire il loro cavaliere e nei giorni precedenti lo trattarono con tutti i comfort e lo nutrirono a volontà. I fiorentini invece, furbi e scaltri, scelsero un gallo nero che misero in una gabbia scomoda e lo lasciarono a digiuno per alcuni giorni. Al giorno convenuto per la sfida, il gallo nero dei fiorentini, ormai esasperato dalla fame e dalla gabbia scomoda cantò molto prima dell’alba e il cavaliere potè partire con un decisivo vantaggio rispetto a quello senese, il cui gallo, ben sazio e rilassato, si svegliò e cantò molto dopo le prime luci dell’alba. Fu così che i cavalieri si incontrarono appena dopo pochi chilometri da Siena, nei pressi di Fonterutoli dove fu posto il confine tra le due Repubbliche.

"Ma quanto ti piacerà raccontarla...". Sento, come se ci fossero realmente, le parole di mia moglie. "Da vi abbuio chissà quanto ci ricami sulla storiella". Nonostante il lessico assolutamente forbito, anche grazie agli studi di Giurisprudenza e un anno passato all'estero, quando si altera lo slang marinaro esce distintamente. Il "da vi abbuio" non significa altro che da "ora a stasera" per sottolineare quando una persona la fa troppo lunga e c'è tanto, troppo tempo, da aspettare. La prima volta che la sentì, a Marina di Pisa, credevo fosse una non ben chiara imprecazione oppure un intercalare di natura arcaica.
Ruggini ce ne sono tante che riaffiorano qua e là nei detti come: "Meglio un morto in casa che un pisano all'uscio". 
Risale ai tempi dello splendore delle Repubbliche Marinare, quando gli esattori pisani si dirigevano a riscuotere i dazi bussando porta a porta. La repubblica pisana aveva uno statuto particolarmente evoluto in termini di diritto privato, commerciale e amministrativo. Infatti, una voce eccezionalmente progredita per civiltà di quel tempo, era quella di riconoscere l’abbuono fiscale, vale a dire l’esenzione dai dazi da saldare, al messo pisano che si prospettava alla porta di casa se ci fosse stato, nell’anno solare, il lutto di un componente della famiglia. Da qui si separano due sfumature di interpretazione: la prima, afferente l’area contadina e bucolica, vedrebbe il “maiale morto in casa”, come esempio di apocalittica sciagura finanziaria, perché voleva dire aver perso quella immensa fonte di ricchezze alimentari e d’uso che l’apprezzatissima bestia garantiva nelle popolose famiglie. L’altra corrente filologica, più credibile, riporta il detto "meglio un morto in casa che l’esattore pisano a chiedere i denari", nella forma contratta e solitamente famosa appunto "meglio un morto in casa che un pisano all’uscio". A consolidare la supposizione che quest’ultima fosse la versione legittima sta il fatto che, per tradizione, ovviamente vendicativa, dopo le batoste subìte dai pisani nella battaglia della Meloria dalla flotta genovese, fu messa in bocca dei genovesi dagli stessi pisani, alludendo così in questa spregevole forma letteraria, ai conosciuti caratteri d’avidità e tirchieria del popolo genovese, ben ricordati anche nella famosa storia del vecchietto che si butta dal decimo piano di un edificio nel centro di Genova, e al quale il droghiere del piano terra, dando l’estremo saluto durante la pietosa opera di ricomposizione della salma, mormora "... si vede che ci aveva la sua convenienza...". Come si vede il recondito significato non si riferisce a quanto forse anche suggerito dalle storiche maledizioni dantesche ma a più argute implicazioni geopolitiche, non di meno all’ovvia impossibilità di presunte doti d’irruenza, crudeltà, aggressività, poco credibili nel popolo pisano universalmente conosciuto per baccellone, presuntuoso, apatico e inconcludente, quindi sostanzialmente inoffensivo.
La maggior parte di queste rivalità nacquero per motivi ovviamente di guerre e conquiste, quando magari Firenze voleva allargare il suo territorio su altre città, spesso riuscendoci.
E detti di questo tipo esistono dai fiorentini ai pisani e viceversa, dai livornesi ai fiorentini (che d’estate "li bevano tutto il mare") e viceversa, soprattutto dai pisani ai livornesi e viceversa, e con tantissimi altri paesini della regione.
Anche in questo caso Dante, nella Divina Commedia, scrisse "Ahi Pisa, vituperio delle genti' proseguendo con altre frasi diciamo poco carine, per usare un eufemismo.
Una curiosità che forse non tutti sanno è che questo detto prevede anche una risposta. Quindi, solitamente quando il livornese dice così, il pisano risponde più o meno: "Che Dio t’accontenti!".
E’ a colpi di proverbi e di detti regionali che le tradizioni di una popolazione si tramandano e la storia continua a essere scritta. I pochi che avranno letto i miei articoli si saranno resi conto che, solitamente, mi piace fare riconoscere la provenienza. Insomma voglio rendere edotti!

È giusto e doveroso reciprocare il merito, però, alle bellezze della città della Torre; il rimescolare continuamente Sacro e Profano è assolutamente legittimo. 
La Piazza dei Miracoli è chiusa armonicamente dalla cinta marmorea del Camposanto Monumentale, articolata in 48 arcate cieche con lesene. L'edificio fu costruito per sistemarvi le tombe giacenti inizialmente sulla piazza e fu iniziata nel 1277 sul luogo dove precedentemente esisteva un palazzo vescovile. Sotto le arcate cieche sono scolpite delle teste di vari personaggi. La porta è adornata con un tabernacolo gotico tricuspide che porta un gruppo raffigurante la Madonna e i Santi, della scuola di Giovanni Pisano. Il Camposanto deve il nome alla terra del Calvario in Palestina che il vescovo di Pisa fece trasportare per nave, al ritorno di una crociata nel 1200, con lo scopo di consacrare il luogo destinato alla sepoltura dei Pisani. L'interno è simile a una grande basilica con la navata centrale aperta e con quelle laterali chiuse in alto da capriate di legno. All'inizio della sua costruzione, il Cimitero serviva per seppellire la povera gente, ma presto iniziò ad accogliere le spoglie degli uomini più importanti di Pisa. Ecco perché vi furono edificate le tombe delle famiglie più potenti, poi delle corporazioni e infine delle associazioni religiose. Vi furono collocate anche reperti dell'arte antica e sarcofagi di marmo, prima variamente sparpagliati sulla piazza. Dal XIV secolo in poi, il Cimitero è considerato uno dei musei più antichi del mondo, continuamente oggetto di cura e abbellimenti. Infatti, lungo le pareti delle gallerie, sono stati allineati numerosi sarcofagi, che, in gran parte, risalgono al periodo ellenico; essi furono utilizzati di nuovo dal XII al XV secolo; prima furono cancellate le vecchie iscrizioni o ritratti che furono sostituiti dal blasone della famiglia pisana che lo riutilizzava. La parete più interessante del Cimitero è costituita dagli affreschi che vanno dal XIV al XV secolo. Il 27 luglio 1944, l'esplosione di alcune granate sotto il tetto della galleria nord, fece scoppiare un grande incendio che causò notevoli danni agli oggetti di marmo, alla carpenteria e soprattutto agli affreschi che, a causa del calore, si staccarono dalla parete minacciando di cadere da un momento all'altro. Il lavoro di recupero fu enorme e molto minuzioso. Dopo lunghi anni di lavoro, le pitture furono staccate una a una dalla pareti e poste su appositi supporti su un materiale speciale tale da poterle preservare da futuri danneggiamenti. Questi danni ebbero, però delle conseguenze inattese. Infatti staccando gli affreschi, le parati hanno lasciato apparire i disegni originali tracciati in gran parte dagli artisti per la preparazione delle pitture. Questi disegni si chiamano "sinopie" e costituiscono la sintesi e la prima idea della pittura. Il più grande ciclo di affreschi è quello realizzato da Benozzo Gozzoli che tuttavia ha subìto dei danni a causa dell'azione di eventi atmosferici quali umidità, vento e, soprattutto, salsedine. Molto interessanti sono gli affreschi denominati "Il trionfo della Morte" e il "Giudizio Universale".
Consiglio, tra l'altro, la vista della città dalle meravigliose Mura, riaperte da poco, che danno una prospettiva particolare di assoluta bellezza. Il camminamento, possibile tutti i fine settimana, permette di immergerci in un contesto storico inusuale potendo, dopo poco meno di cinque chilometri, ritornare al punto di partenza. 

Il Pisa, a livello calcistico, ha rappresentato la rinascita dopo le ceneri del fallimento di cecchigoriana memoria. Il 21 agosto del 2002, nel primo turno di Coppa Italia, la nuova e amarissima Florentia Viola veniva sconfitta dalla squadra nerazzurra che era stata seguita, come di consueto, da migliaia di tifosi. Gli sfottò furono all'ordine del giorno. Ero talmente svuotato che, per la prima volta, non risposi a nessuna loro provocazione. Il dolore per quanto accaduto era ancora troppo vivo: una ferita che, nel corso degli anni, difficilmente sarei riuscito a digerire nonostante gli ottimi risultati ottenuti a livello nazionale e in Champions League.
Ricordo, solo per sottolineare a qualche lagnoso pseudo tifoso, la formazione che scese in campo con una maglia "simil fruit" (mancavano addirittura i palloni...) con un Giglio Rosso sul petto. L'unica cosa che non poteva esserci sottratta.
Ivan, Biagianti, Mugnaini, (58’ Scarpellini), Persico, (60’ Parrini), Bambi, Andreotti, Di Livio, (83’ Zagaglioni), Guerri, Bartalini, Melzi, Quagliarella. All. Vierchowod.
Eppure, nonostante tutto, sarei veramente contento se la squadra di mia moglie venisse in serie A. I playoff saranno duri anche per la presenza di società forti e nobili ma la possibilità, sulla carta, è fattibile. Curioso, ma diciamolo sottovoce, sottolineare che a Torino il 24 luglio 1921 Pro Vercelli e Pisa si sfidarono nella finale per il titolo nazionale: sono i piemontesi, grandi favoriti, a spuntarla. Le reti di Ceria e Rampini spezzano le speranze dei pisani, a segno con Sbrana su rigore. Finisce 2-1: è il punto più alto toccato dal Pisa. Nell’era della Serie A non ne arriveranno più di simili. 
Sarebbe bello fare una trasferta di appena un chilometro (tre minuti a piedi) dalla casa di mio suocero, fortunatamente viola anche se "sbiadito", all'Arena Garibaldi, ribattezzata, come doverosa onoreficenza, a Romeo Anconetani.
Aveva acquistato il Pisa nel 1978 e lo aveva lasciato nell’estate 1994, dopo il fallimento. Un presidente d’altri tempi, polemico, vulcanico, scaramantico, un irascibile mangia-allenatori. Famosi i suoi riti col sale e i suoi pellegrinaggi. Trattava i giocatori come figli eppure era capace di assumere provvedimenti durissimi nei loro confronti. Un’avventura, la sua, che merita di essere ricordata.

Nel calcio ci era entrato prestissimo. Toscano, nato per caso a Trieste il 27 ottobre 1922, a poco più di 30 anni era già segretario del Prato. Poi, nel 1955, venne scoperto a cercare di aggiustare Poggibonsi-Pontassieve. Corruzione e conseguente radiazione a vita. Un colpo duro ma non per lui che trova una nuova strada grazie a una licenza della camera di commercio di Pisa: mediatore. Praticamente il nonno dei procuratori di oggi. Si presenta al calciomercato al "Gallia" e fa subito centro. E’ al fianco di "raggio di luna" Selmosson a Roma e poi di Claudio Sala, il futuro "poeta del gol", al suo arrivo a Torino. E’ "mister cinque per cento", tanto guadagna da ogni affare, e stupisce tutti con un un archivio da far paura; si narra di oltre 5 mila pagine con dati e caratteristiche di centinaia di giocatori.
Nel 1978 ha una grande casa a Pisa, due ville a Castiglioncello, un’altra all’Abetone, ha un pingue conto in banca e una scuderia di cavalli, ma gli manca qualcosa. Quello che gli offre il costruttore Rota: il Pisa. Diventa proprietario, ma non presidente per quella radiazione, fino al 1982, quando la vittoria al mondiale Spagnolo consentì l’amnistia. Quel giorno del 1978 comincia un'avventura durata sedici stagioni di alti e bassi, liti, successi, aggressioni, lacrime e anche sangue. 
"Il Pisa sono io", disse un giorno e quella frase sarebbe diventata lo slogan del suo regno, anzi della sua dittatura, altro che gestione. Ventidue allenatori cambiati in sedici campionati (Boniek il record, durò tre ore e mezzo…), scontri epici con tutti. A cominciare dai tecnici. Da Simoni a Lucescu, da Guerini a Materazzi, da Vinicio a Montefusco, tutti costretti a subìre la sua ingombrante presenza, i suoi suggerimenti (ha sempre negato di dare consigli o, peggio, fare formazioni ma con scarsi risultati) pena il divorzio, esonero o dimissioni che fossero. 
Gli disse un giorno del 1991 Agroppi: "Non torno, preferisco vivere". E questo chiarisce bene l’idea. Con i giornalisti anche peggio: quando sbottava, dopo una partita o durante un ritiro, ce n’era per tutti. Con quella sua voce stridula e ruvida come la carta vetrata (mia suocera, quando lo imitavo, impazziva dal ridere) era capace di augurare maledizioni e brutte malattie, di minacciare radiazioni dall’albo professionale e stroncature di carriera. Insopportabile duce di tutto quanto si muovesse intorno al Pisa. Lo stesso faceva coi giocatori, trattati talvolta come figli, addirittura serviti a tavola in ritiro oppure accompagnati a messa alla domenica mattina o ancora omaggiati di quadri d’autore o trascinati, portafogli in mano, a comprare scarpe o cappotti. Oppure trattati come nemici, costretti a estenuanti ritiri in un albergo di Pescia, che si diceva di sua proprietà, zittiti e rimbrottati sul campo, addirittura pedinati.
Inarrivabile nello scovare talenti sconosciuti, nel valorizzarli e nel rivenderli. Dal danese Berggren, suo primo colpo col Pisa in A, pagato 270 milioni e rivenduto quattro anni dopo per 4 miliardi. Oppure l’olandese Kieft, acquistato per 760 milioni e rivenduto per 5 miliardi. O ancora Carlos "Cucciolo" Dunga, capitano del Brasile campione del mondo nel 1998, preso per 600 milioni e rivenduto alla Fiorentina per un miliardo, o ancora l’argentino Diego Simeone, per concludere con un altro danese, Larsen, diventato campione d’Europa e con Chamot.

Ma anche incredibile e scaramantico, come nei pellegrinaggi alla Madonna di Montenero o nel lancio del sale propiziatorio sull’erba dell’Arena Garibaldi. Nel dicembre del 1990, prima della partita col Cesena, poi vinta, ne sparse ben 26 chili. Aveva ragione, il Pisa era lui: capace di scrivere quasi giornalmente, e inviare personalmente centinaia di fax alle redazioni dei giornali con specificato "si smentiscono le notizie apparse". Di rispondere al telefono, fingendosi centralinista, per fare "filtro" nei confronti di se stesso; di fare piazzate indecorose per l’uso smodato di penne biro in società, di spiegare al cuoco come cuocere la pasta in ritiro e al magazziniere come risparmiare sulle bende. 
Amato, Romeo, a Pisa per le quattro promozioni in A e per la conquista di due Mitropa Cup. Ma anche mal sopportato, ferito nell’ottobre 1993 da una bottiglia lanciata dalla sua stessa curva rischiò di perdere un occhio. Non c’erano mezze misure, né per lui, né con lui, né intorno a lui. Se n’era andato nell’agosto del 1994 con un clamoroso fallimento conseguenza di un dissesto finanziario che nemmeno le buone amicizie in Lega e in Federazione riuscirono né a giustificare e neppure a nascondere.
Seguirono collaborazioni col Genoa e col Milan come consigliere e come osservatore; ma la grande avventura dell’ex mediatore, arrivato a sedersi al tavolo di Berlusconi e Boniperti, si stava concludendo, soffocata da un calcio nel quale non poteva trovare più posto la figura del presidente un po' orco e un po' padre, fine intenditore, scopritore di talenti, ma con un'anima da mercante. Completamente fuori dal tempo, da questo tempo, come Rozzi ad Ascoli o Sibilia ad Avellino.
Se ne va in silenzio, nel novembre 1999, dopo una settimana di coma, culmine della malattia incurabile che lo affliggeva da tempo. Non ha cambiato la storia del calcio ma quella del Pisa sicuramente. Ed è un’avventura che, malgrado tutto, merita di essere salvata. Della sua generazione (Viola, Mantovani, Allodi, Fraizzoli) sono morti in tanti, il folclore è diminuito, l’onestà e le competenze non sono cresciute. La falsità e l’arroganza di sicuro. L’umanità, solo un ricordo.

Sto uscendo a Pisa Nord; questi ottanta chilometri mi sono letteralmente volati. Ho ripercorso la mia "seconda casa" in lungo e in largo. Mi fermo al solito banchino, uno slow food moderno, per prendere un euro di Cecina, la meravigliosa torta di ceci in "mezzo" alla focaccina. "Toh c'è r'fiorentino" - vengo subito etichettato. Eppure mi piace, vengo avvolto da un senso di focolare, stabilità. La gente, di solito, ama stare al centro del mondo, a me basta un angolo dove c'è tutto il mio mondo.
Un proverbio afferma che "l'infinito è nel finito di ogni istante". Anche per questo, in fondo, andare a caccia di ricordi non è un bell'affare. Quelli belli non li puoi catturare e quelli brutti non li puoi uccidere.