Il 19 ottobre del 1781, il Regno Unito si vede infliggere la peggior sconfitta della sua storia. Dall’altra parte dell’oceano, tredici colonie di contadini e ben pochi guerrieri hanno piegato il suo esercito, guidato dal fiero Marchese Cornwallis. Costui è un britannico come molti altri, vicino tra l’altro alla causa di coloro che, in America, chiedevano più diritti alla madre patria. Ciò nonostante, ha accettato suo malgrado di guidare l’esercito di Sua Maestà contro i ribelli americani. Ritiratosi a Yorktown, osserva i plotoni indigeni insediarlo da terra, così come le flotte francesi attaccarlo via mare. Non c’è più modo di difendersi. Le vie di fuga sono state tutte tagliate. Ma non è questo a far comprendere a Lord Cornwallis che la battaglia è finita e la guerra è persa. No, a farlo sono gli sguardi dei suoi sottoposti, ai prodromi dell’ultima battaglia. Tra chi fa fatica anche solo a caricare il fucile, chi si taglia come un novellino pulendo la baionetta, chi addirittura sorpreso a osservare il vuoto, attraverso le feritoie. Non c’è più nerbo nel suo esercito. Non c’è più consapevolezza del per cosa si stia combattendo, per quale ragione, per quale bottino. Ciò nonostante, alle prime luci dell’alba la battaglia inizia e il comandante grida la carica. Dall’altra parte, con il suo cannocchiale Cornwallis dà uno sguardo ai suoi avversari. Sono rozzi, sporchi, affamati per lo più. Alcuni sono armati di semplice baionetta, lasciando il fucile a coloro che di guerra ne sanno qualcosa. Si buttano contro i suoi in maniera disordinata, ma diamine almeno di orgoglio ne dimostrano. Loro sanno per cosa stanno combattendo, sanno qual è il loro obiettivo e al diavolo tutte le loro mancanze. Ciò che manca al suo esercito, ben vestito e armato, ma stanco e avvilito. Ai suoi uomini manca il carattere e, soprattutto, la motivazione. Triste e derelitto, non passa molto che Cornwallis grida alla resa, in una battaglia che aveva già perso in partenza. 

27 ottobre 2019 ore 17.30, Stadio Olimpico di Roma. Mancano pochi minuti all’entrata in campo di Roma e Milan. Nello spogliatoio degli ospiti, vige un silenzio sepolcrale. Pioli osserva con attenzione gli sguardi dei suoi uomini, di cui è alla guida da appena qualche settimana. La sua prima battaglia si è conclusa con un nulla di fatto, ma alcuni scampoli di prestazione gli hanno dato qualche speranza. Dall’altra parte, la squadra di casa è ferita, contata nel numero. Di coloro che scenderanno in campo, molti non sono in condizione, inoltre portano sulle gambe una partita infrasettimanale in più. I presupposti per sbancare ci sono tutti, almeno sulla carta, nonostante le chiare difficoltà. Quando Pioli si sofferma sugli occhi dei suoi giocatori. Molti di essi sono spenti, la maggior parte confusi, alcuni persino impauriti. Conti pare addirittura tremare, mentre si mette gli scarpini, anche se Pioli crede sia solo un’impressione. Biglia, suo alto comandante di mediana, è silenzioso, troppo perché la cosa non lo insospettisca. C’è tanta gioventù nella sua compagine, così come tanto talento. Ciò che però manca è una solida motivazione. Nemmeno un anno prima, Pioli aveva affrontato questi giocatori da avversario e ne era rimasto scottato. Certo, di loro non ricordava una formazione ordinata e spumeggiante, ma terribilmente motivata e dotata di una sana cattiveria agonistica. Ora invece, mentre li osserva prepararsi, pensando a cosa dire per spronarli un po’, vede un’accozzaglia di giovani atleti privi di nerbo e idee. E mentre lo fa, cerca di capire che diamine è successo in così pochi mesi, dentro quello spogliatoio. Ce la farà a ridestarli da quel torpore mortifero, in cui paiono essere caduti tutti? Pioli non lo sa. In tutta sincerità, Pioli non sa nemmeno se usciranno indenni dalla sfida che li sta per attendere. Per questo, poco prima di imboccare il tunnel che porta al campo di battaglia, cerca di scuoterli. “Attaccate. Affrontate il campo a testa alta. Divertitevi. Fate questo e tutto andrà bene”. Alcuni cercano di sorridergli, altri annuiscono solamente. Povero Pioli, pensano dentro di loro, non è mica sua la colpa. Di chi sia esattamente alcuni ne sono certi, altri meno, ma tant’è, ciò che tutti hanno in comune è il silenzio. C’è ben poco da parlare, dove le orecchie non vogliono ascoltare. Comincia così la partita e Pioli osserva silente i primi minuti. Osserva e già sente dentro di sé, che la resa dei suoi è già stata suonata, anche se nessuno pare averla udita con chiarezza

27 ottobre 2019 ore 20.15, Stadio Olimpico di Roma. Dall’altra parte delle mura, si sentono le urla festanti della squadra di casa. La loro vittoria li ha riportati a un passo dalla zona Champions, rispedendo il Milan invece nel più profondo e gelido degli inferni. Ciò che fa più male a Pioli è che ciò che vede, i giocatori intenti a rivestirsi, ha gli stessi colori e suoni del pre-partita. Un silenzio tombale e privo di emozioni. Sembra quasi un dejà-vu. Non vi sono occhi tristi sui volti dei suoi, ma solo indifferenza e rassegnazione. La partita era già stata persa in partenza, con un atteggiamento sbagliato, ma soprattutto a causa di una squadra oramai svuotata di qualsiasi motivazione tangibile. Il primo tempo contro il Lecce, ora ne è convinto, è stato solo un abbaglio, un’illusione. Dentro di sé, cerca di rincuorarsi. Sa benissimo che le colpe non sono sue. O almeno non lo sono tutte, tranne una. È passato nemmeno un mese dalla sua firma su quel contratto, eppure è come se fosse alla guida del Milan da un decennio, per come si sente. Non osa assolutamente pensare al classico “chi me l’ha fatto fare”. Pioli è un uomo orgoglioso e responsabile, sapeva bene dove stava andando a imbarcarsi e lo ha fatto con sano spirito battagliero. Una cosa però, per quanto infinitesimale, proprio non riesce a perdonarsela. Un dettaglio, una minuzia, una cosa alla quale non aveva ancora pensato, ma che ora ha il peso di un macigno e la voce di un titano. Perché non fare un colloquio con la squadra, prima di firmare? Perché non cercare di comprendere se il suo arrivo era ben voluto da tutti e, soprattutto, compreso? Se lo domanda, perché nella mente c’è ancora quella maledetta partita contro il Milan, quando ancora era sulla panchina viola. Dov’è finita quella squadra che, per quanto potesse essere brutta a vedersi, aveva la forza di una schiacciasassi quando era in partita? Dove sono finite le motivazioni? Il 19 ottobre è già passato, almeno sul calendario, ma figurativamente Pioli si domanda ancora se esso non debba ancora arrivare. Oltre duecento anni prima, in quella data Cornwallis di arrese all’esercito delle colonie unite, incredulo nonostante fossero stati molti i segnali di resa anticipata da parte dei suoi. Contro la Roma, in particolare dopo il secondo svantaggio, Pioli ha visto i medesimi segnali nelle gesta e nel carattere dei suoi giocatori. Atleti con cui non ha ancora sviluppato un feeling e forse non ci riuscirà mai. Uomini che forse ancora sentono una mancanza mortale dentro le loro anime. Pioli, come forse Giampaolo poco prima di lui, ha già compreso che lo spirito di Gattuso aleggia forte nelle menti di tanti suoi giocatori. Credere il contrario, vedendo il brutale cambio di carattere e motivazione, sarebbe da folli. Rino faceva giocare questa squadra come una provinciale, ma ci metteva dentro un’energia e una cattiveria in grado di spaventare chiunque. E mentre fuori, anche tra coloro che verso il tecnico calabrese furono più duri, si comincia a sussurrare “quando c’era Rino…”, Pioli sente il calore sfrigolante della patata bollente che si trova tra le mani. La sua delusione non viene dalla semplice prestazione contro la Roma, ma probabilmente dal fatto che non sa come cavarsi fuori dall’abisso, in cui si è gettato con le sue gambe. Proprio come Cornwallis, in quel lontano giorno a Yorktown, si domanda che cosa sarebbe accaduto, se non avesse accettato. Si domanda, tra un grattacapo e l’altro, perché mai non ha contato fino a dieci, il giorno in cui gli fu offerto l’incarico. Perché quando il tuo esercito, o la tua squadra se vogliamo, decide di arrendersi di sua spontanea volontà a battaglia in corso, c’è ben poco che tu possa fare. E Pioli ora lo sa bene. Lo sa come lo seppe Cornwallis quasi due secoli e mezzo fa, quel 19 ottobre che, sebbene ricordiamo come esso sia già passato sul calendario, quel giorno potrebbe invece essere ancora nel futuro del nuovo tecnico rossonero. Quello della sua resa, perché i miracoli non accadono tutti i giorni e senza solide motivazioni.