Il calcio è di chi lo ama.

Il calcio nasce ogni volta che si gioca per strada.

Il calcio è di tutti.

Tutto vero. Ma è veramente di tutti? O meglio, il calcio è per tutti? I cliché sovraesposti sembrerebbero una giustificazione, un modo per declinare le proprie responsabilità ad un fantomatico mal comune (poco gaudio) che abilita a comportarti in un certo modo. E rispondere "perché è così" quando ti chiedono le motivazioni delle tue azioni è solo il (poco dulcis) in fundo di uno sport finito eticamente in rovina.

Perché hai sputato al tuo avversario? Perché è così, l'ho visto fare a Douglas Costa.

Perché hai urlato "buuuu" ieri sera allo stadio? Perché è così, l'ho visto fare contro Lukaku.

Perché hai rotto la bandierina per esultare? Perché è così, Cassano lo fa da sempre.

Perché è così. Domenica in provincia, in casa o in trasferta: mentalità ultras, alcool a volontà, sostanze proibite, bestemmie, insulti contro i giocatori avversari.
L'attimo dopo il bersaglio cambia, il direttore di gara ha di colpo tutta la genealogia di sesso femminile infangata da epiteti orrendi e indicibili. La compagna del malcapitato ad ogni fuorigioco, ad ogni fischio, ad ogni accenno di buonsenso nel nome dello spirito sportivo, diviene all'occhio dei "padroni della curva" più infedele dei protagonisti di 50 Sfumature di grigio. Inneggiano all'onore di un amore che è sempre più difficile trovare, si innalzano oniricamente all'inviolabile momento dei cori nel quale il capo della sacra comitiva, girato spalle al campo, intona versi tramandati nel corso dei decenni dai trogloditi delle generazioni precedenti.

"Toglietevi la maglia!" urlano delusi ad ogni derby perso contro la rappresentativa del paese più vicino.

"La città è piccola!" appare sotto casa di chi, sfortunatamente in campo in quella debacle, non si mostra per le successive settimane crocifisso in volto dopo una sconfitta del genere.

"Ci vediamo all'uscita!" minacciano ai colleghi del settore opposto che tentano coraggiosamente di sbeffeggiarli con le stesse armi.

L'ossimoro più evidente di questo sport piegato dalla mentalità ultras è il comportamento delle istituzioni. In una società funzionante, le azioni demenziali dei delinquenti vengono prevenute attraverso leggi e ordinanze contro i trasgressori. La domenica, su questi campi teatro di disagio, si assiste costantemente a limiti superati e a conseguenze pressoché nulle, per timore di ritorsioni o di situazioni aggravate nella violenza. 

L'isola che non c'è dovrebbe essere in questo mondo pallonaro l'Inghilterra, che da qualche anno ha debellato gli hooligans, e attraverso stadi accoglienti e sicuri ha ridato vigore ad un movimento in declino. Lo scorso dicembre un tifoso aveva lanciato una buccia di banana ad Aubameyang. Una manciata di giorni dopo, lo stesso tifoso ha visto annullarsi il diritto di recarsi presso uno qualsiasi degli stadi inglesi. E lo ha visto da una cella di prigione. Arrestato e squalificato, a vita. Un "tumore" in meno contro questo sport, un motivo in più per iniziare a seguirlo.

L'isola che non c'è fa purtroppo i conti con quella che c'è. Penisola, in questo caso.
Se ami il calcio nostrano, livello "radiolina ben carica" durante i matrimoni e le feste, sei morto 22 volte. Ogni volta che hai sentito le storie di palloni e pallottole, muori dentro perché non riesci a contemplare tutto questo.

Daniele Belardinelli, tifoso dell'Inter morto lo scorso 26 dicembre investito a Milano dove, prima della partita con il Napoli, ultras nerazzurri hanno attaccato alcuni pulmini di tifosi partenopei.

Gabriele Sandri, morto l'11 novembre 2007 a causa di una sparatoria fatta dalla polizia a seguito di alcuni scontri tra tifoserie calcistiche avvenute sull'autostrada A1 Milano - Napoli.

Ciro Esposito, morto 50 giorni dopo il 3 maggio 2014, quando è stato ferito gravemente da un tifoso della Roma durante la finale di Coppa Italia.

Filippo Raciti perde la vita il 2 febbraio 2007 negli scontri scoppiati, al termine del derby Catania-Palermo, fuori dallo stadio «Massimino» tra i tifosi e le forze dell’ordine.

Come loro, altre 18 vittime dal 1963 ad oggi.
In mezzo secolo 22 persone strappate alla loro esistenza dal piombo, dal sangue versato per l'odio fomentato da un pallone.

La domanda che ci siamo posti all'inizio è se il calcio è di tutti.
La domanda che si porrà la maggior parte di chi è arrivato a questo punto dell'articolo è: colpa del calcio se si muore per il calcio? Non si è inventato internet per permettere ai pedofili di trovare materiale a loro gradito. Non si è inventata la Chiesa per promuovere la vendita delle indulgenze. Non abbiamo inventato lo stadio per renderlo teatro di omicidi. Nè di insulti, nè di razzismo, nè di maschilismo, nè di qualsiasi becera azione che mira a contaminare il buon gusto di una società sana.

Arrigo Sacchi diceva che tutti sappiamo giocare a pallone mentre pochi sanno giocare a calcio. Per quanto mi riguarda, il riferimento può essere valido anche e soprattutto per chi è tangente a questo sport. Per chi lo tocca, per chi lo influenza, per chi lo rende diverso da quello che è e anche da quello che dovrebbe essere. Rendiamo molti i pochi. Vogliamo insegnare i cliché ai nostri figli? Facciamolo, ma puntualizziamoli di civiltà.

Il calcio è di chi lo ama... di un sentimento positivo senza odio e senza rancore.

Il calcio è di tutti... coloro i quali si avvicinano all'avversario solo per stringergli la mano. 

Il calcio nasce ogni volta che si gioca per strada... e muore ogni volta che si prende la strada sbagliata.

 

Renato De Filippi