"... era l'anno dei Mondiali, quelli dell''86, Paolo Rossi era un ragazzo come noi...".
Questo è uno dei passi di una canzone di Antonello Venditti del 1986, Giulio Cesare. Mi rimase impresso perchè diceva una verità, amara o felice poco importa. Quello che era stato 4 anni dopo l'eroe nazionale che portò l'Italia a vincere i Mondiali in Spagna, ritorna meno di un lustro dopo un calciatore normale. Risultato di un'involuzione calcistica o semplicemente di un processo fisiologico, per cui quando si arriva alla cima poi non si può far altro che scendere.
Un Mondiale si gioca nel giro di un mese. E' una competizione che premia chi in quel mese sta meglio, più in forma, più in palla. Premia chi ha la fortuna dalla sua parte e diventa un incubo quando il destino ti volta le spalle proprio nel momento cruciale, quando magari dopo una stagione fantastica e impeccabile ti trovi ad avere un infortunio proprio nell'ultima amichevole precedente alla partenza o in un innocuo allenamento. Chi diventa l'Eroe di un Mondiale, spesso e volentieri vive la situazione inversa.

Al di là del valore tecnico, condizione ineccepibile senza la quale nessun ct ti chiama per un campionato del Mondo, il Protagonista gode di una serie di incastri, coincidenze e botte di fortuna grazie alle quali si ritrova lì.
Nel 1980 Paolo Rossi fu squalificato per la vicenda del Calcio Scommesse. Rientrò nell'aprile del 1982, due mesi prima di partire per il Mundial spagnolo. Bearzot, che già lo aveva avuto in Argentina 4 anni prima, non ci pensò su e lo chiamò in Nazionale. Questa scelta destò scalpore: Rossi, inattivo per 2 anni, fu preferito a Pruzzo, che negli ultimi 2 campionati era stato capocannoniere in serie A. Molti i malumori, alimentati poi dalle prime 3 partite di quel Mondiale.
Rossi non segnava e la squadra giocava male. Poi la svolta. Il 5 luglio 1982 Rossi si prende quel Campionato del Mondo. Lo fa nella partita contro i piu forti, contro il Brasile di Socrates, Junior e Zico. Lo fa con una tripletta, non con un solo semplice gol. Ne fa 3, di rapina, di potenza e di qualità. C'è tutto. "Il primo gol al Brasile, lo ricordo come il più bello della mia vita. Non ho avuto il tempo di pensare a nulla: ho sentito come un senso di liberazione. È incredibile come un episodio possa cambiarti radicalmente: niente più blocchi mentali e fisici. Dopo quel gol, tutto è arrivato con naturalezza".
Da lì in poi Rossi diventa Pablito, segna una doppietta alla Polonia in semifinale e il gol che sblocca l'ultimo atto con la Germania Ovest. «Eravamo campioni del mondo. Feci solo mezzo giro di campo coi compagni: ero distrutto. Mi sedetti su un tabellone a guardare la folla entusiasta e mi emozionai. Ma dentro sentivo un fondo di amarezza. Pensavo: "Fermate il tempo, non può essere già finita, non vivrò più certi momenti". E capii che la felicità, quella vera, dura solo attimi». Questa frase racconta la vita di un campione. Fatta di attimi, che sembrano quasi niente di fronte ai mesi, agli anni di lavoro che ci sono dietro a un Mondiale. Ma in realtà quei pochi attimi sono tutto, perchè racchiudono emozioni che torneranno a distanza di anni sotto forma di nostalgia, di felicità, di malinconia, di orgoglio.
Forse chi arriva tanto in alto da poterle vivere deve avere l'equilibrio per restare in quelle quote, forse bisogna avere un carattere cosi forte da non viverle come una mancanza di stimoli per vittorie future.

Paolo Rossi resterà sempre Pablito, nonostante la parabola discendente subito dopo quei Mondiali, quando aveva solo 26 anni.
Malgrado appena un lustro dopo deciderà di ritirarsi dal calcio, ormai svuotato di energie fisiche e mentali. Resterà Pablito, un ragazzo come tanti, con solo qualcosa in più da raccontare.