I maggiori campionati europei negli ultimi anni hanno visto protagoniste sempre le stesse squadre, le cosiddette big. La persistenza di questa tendenza sta avvenendo in questa stagione, in particolar modo nella Premier League, che pure ha visto trionfare il Leicester, unico Davide tra i tanti Golia, due stagioni orsono, come inaspettato Carneade.

Il distacco tra le "sei sorelle", Arsenal, Manchester City, Liverpool, Manchester United, Tottenham e Chelsea, e il resto della graduatoria è impietoso e ormai cristallizzato; la prima squadra "normale", il Wolverhampton, è distante undici punti. Un'enormità.

Il fatto che tutto questo accada proprio nella terra d'Albione, dove è presente il migliore e più equo esempio di ripartizione dei diritti televisivi, dovrebbe fare accendere più di un campanello d'allarme nelle alte sfere del calcio continentale, ma al momento non si registrano movimenti eclatanti in questa direzione.

Una modifica dirompente e quantomai rivoluzionaria potrebbe provenire dagli Stati Uniti d'America e in particolar modo dal massimo campionato di basket, la NBA: il salary cap. Una peculiarità del movimento cestistico americano risiede appunto in questo tetto, fissato a priori, che le squadre non possono in alcun modo sforare, tranne in particolari casi.

In Serie A, ad esempio, la disparità tra un Empoli, che spende in ingaggi 16 milioni di euro lordi, e un Inter che ne elargisce invece 116 è evidente e il divario esageratamente ampio. I detrattori diranno che implementare un modello simile, senza cambiamenti, è impossibile perché lì vige un sistema senza retrocessioni/promozioni, e si parla di franchigie e non di squadre. La critica è sensata, ma l'obiettivo di chi scrive non è quello della formulazione completa di una proposta quanto piuttosto di fornire uno spunto ai dirigenti della UEFA che a livello legislativo potrebbero sicuramente formulare una modifica precisa e puntuale.