Per quelli come me amanti del calcio, URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) significa Lev Ivanovič Jašin, nato e morto a Mosca, portiere negli anni 50 e 60 della Dinamo Mosca (squadra del Ministero dell’Interno) e della nazionale sovietica, unico estremo difensore della storia premiato con il Pallone d’oro, nonché vincitore di un Europeo e di un’Olimpiade.
Oppure, sempre per quelli come me appassionati del football, come lo chiamano i padri del gioco, gli inglesi, URSS significa Valerij Vasyl'ovyč Lobanovs'kyj, nato a Kiev e morto a Zaporizzja, colonnello dell’Armata Rossa e grande allenatore negli anni 70 e 80 della Dinamo Kiev e della nazionale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Due grandissimi uomini di sport sovietici, uno, il primo, russo, e l’altro ucraino.

Cosa direbbe Jašin, morto un anno prima del disfacimento del più grande impero comunista del XX secolo, nel vedere oggi, quelli che al suo tempo erano fratelli e “combattenti” sportivi per la stessa maglia, uccidersi con l’odio che si ha per i peggiori nemici?
Cosa direbbe il colonnello Lobanovs'kyj, nato sovietico e morto ucraino? Fosse ancora vivo impugnerebbe le armi e le rivolgerebbe contro chi ha servito da militare e da uomo di sport per una vita intera?
Questa è la storia di chi dal 2014 si sta sparando, di chi da cinque giorni non riconosce più l’amico dal nemico, di chi, da una parte, quella ucraina, si difende in nome della democrazia, della libertà, e di chi, dall’altra, quella russa, bombarda in nome della difesa dei confini, della difesa di un’identità, di una storia, di un impero, quello sovietico, di cui è nostalgico, di cui pochi giorni fa ha detto: la fine dell’URSS è stata la più grande tragedia del secolo scorso.

Tutti si difendono, nessuno attacca, un po’ come due squadre di calcio che lasciano il pallone a centrocampo e si mettono entrambe davanti alla loro porta per difenderla, senza voler far goal in quella avversaria.
Questo è quello che dicono, ma l’uccisione degli esseri umani, la distruzione di case, strade, di qualsiasi cosa vivente e non, presente nel territorio ucraino chi la sta facendo, chi sta cercando in qualsiasi modo, con tutta la forza che ha di fare goal? Non è un attacco quello delle bombe russe?
Potremmo discutere per ore, per giorni sulle cause di tutto questo, sulle ragioni, sul perché si è arrivati a tanto, e probabilmente non ci troveremmo tutti d’accordo, non riusciremmo a trovare un motivo vero, un motivo che unisce tutti quanti.
In una cosa però dovremmo essere tutti uniti, tutti d’accordo: non è importante la causa, ma l’effetto, e l’effetto che sta avendo la guerra tra Russia ed Ucraina riguarda il mondo intero, perché volendo fare gli egoisti e fregandocene degli ex sovietici che si stanno eliminando tra di loro, la questione vera è che le bombe, quelle vere, possono arrivare da un momento all’altro in ogni angolo del glob,o e quelle economico-finanziarie, invece, sono già arrivate e possono fare forse peggio di quelle lanciate dagli aerei e dai carroarmati di Vladimir Vladimirovič Putin da Leningrado (oggi San Pietroburgo), folle capo di una dittatura militare che assomiglia molto a quella di un uomo con i baffetti nato a Braunau am Inn il 20 aprile 1889, che nel 1939 invase la Polonia dando così di fatto inizio alla seconda guerra mondiale (per chi non lo sapesse, la Polonia, diciassette giorni dopo l’invasione tedesca, subì anche quella sovietica).

Nostalgia, nostalgia canaglia cantavano Albano e Romina, ma quella era nostalgia di una strada, di un amico, di un bar, non di un impero che ha portato ovunque fame, morte e privazione della libertà.
Non esistono dittature rosse e dittature nere, non esistono dittature buone e dittature cattive, le dittature sono tutte uguali.