“La verità
è che ti fa paura
l'idea di scomparire
l'idea che tutto quello a cui ti aggrappi
prima o poi dovrà finire

La verità
è che non vuoi cambiare
che non sai rinunciare a quelle quattro, cinque cose
a cui non credi neanche più”

Brunori Sas, La Verità


La verità è che a me non dispiacciono i sentimenti. I sentimenti ti rendono inerme, fermo immobile vicino a qualcosa che condiziona il tuo status all’interno della società. Passi una vita a credere che essere spassionati coincida con l’essere obiettivo, poi mentre passi per strada, passa una tipa e passa l’obiettività. L’amore è un sentimento. Passi la vita successiva ad amare quella tipa, poi passa l’amore e l’amore passa come problema. Inizi ad odiare quell’amore, l’odio è un sentimento. Arrivato all’ennesima vita, capisci che amare non è più tra le opzioni e il passaggio alla rassegnazione è obbligato. La rassegnazione è un sentimento. Decidi di passare l’ultima vita in una casa per anziani, convinto di trascorrere il tempo tra una briscola e l’altra. Passa una signorotta attempata, 85 anni, pantaloni “Dimensione Danza” perennemente vicina all’impianto stereo obsoleto che la direzione permette di usare un paio d’ore al giorno. Si avvicina a te, la rassegnazione è già un lontano ricordo, ti senti rinato. Rinascere è un sentimento. 

Ora, la questione è: se il mondo del calcio è un riflesso della nostra società (siamo d’accordo un po’ tutti su questo no?), perché la nostra società dovrebbe essere imprigionata da uno solo dei sentimenti che popola social e blog pallonari? La nostalgia

Sono stanco. Sono stanco della miriade di utenti over50 che utilizza la sua memoria come strumento per minimizzare l’attualità. Sono stanco di chi passa tutti i giorni della sua pensione a ricordare agli altri che quello che hanno vissuto loro è migliore di quello che vivremo noi. Stanco. Stanco di chi sentenzia, stanco di chi tira fuori la Champions del 1978 per avere la meglio in una conversazione di cui l’argomento era la capacità di dribbling di Mbappé. Stanco di chi, dall’alto delle sue 58 presenze in prima categoria tra il 1980 e il 1983, gabella assoluti verdetti sulla funzionalità di un modulo piuttosto che un altro.

“Eh ma quando giocavo io…” “Eh ma quando arbitravo io…” “Eh ma se non fosse stato per i miei infortuni…” “Eh ma questi qui con tutti questi tatuaggi…” “Eh si stava meglio quando si stava peggio…” 

Come se fosse colpa nostra.

24 anni di Mundial '82. 24 anni in cui si è ricordato l’urlo di Pablito come un’opera d’arte irripetibile, irreplicabile. Bello eh, intenso ed emozionante. Però non ci si può vantare di vivere qualcosa di non ripetibile se 24 anni dopo, Pablito ha lasciato il posto a Fabio Caressa che urla con lo zio Bergomi sotto il cielo di Berlino.  Sono le stesse persone che citano l’Inter di Ronaldo come una delle più forti di sempre quando poi dal ‘97 al 2002 (permanenza del Fenomeno) è stata la stessa Inter che ha cambiato 7 allenatori in 5 anni vincendo assolutamente niente.  Sono le stesse persone che quando gli fai notare la fortuna di vivere in un’epoca in cui CR7 e Messi condividono circa 1400 gol e 10 palloni d’oro in due, ti rispondono che loro possono solo allacciare le scarpe a Maradona e Pelè.

Vorrei precisare che questo piccolo sfogo da parte mia non riguarda minimamente chi argomenta le proprie considerazioni alimentando un legittimo scambio di vedute ma chi, con un’irritabile saccenza, chiude gli occhi e immagina di vivere nel suo mondo costruito sui suoi riferimenti temporali: un mondo perfetto e senza alcun metro di paragone con quello altrui.

Anche perchè, suggestioni intertemporali a parte, come si fa a decretare valida e senza alcuna ombra di dubbio una teoria che rapporta giocatori o modi di vivere il medesimo sport in archi temporali così diversi? Come si fa ad avere la certezza di un giudizio empirico su chi sia il più forte tra x e y? Io non lo so se Maradona sia più forte di Messi o se Pelè lo sia più di Ronaldo, ma sono assolutamente certo che prima che un’epoca diventi pan per nostalgici è stata vissuta dagli stessi nostalgici che magari combattevano per convincere le generazioni precedenti, a loro volta chiusi nella comfort zone della memoria.

Concludo dicendo che ricordare genera, ancora una volta, sentimento. Ma ricordare presuppone di aver vissuto, prima che ciò diventi tale espressione emotiva. E allora, cari i miei nostalgici, dopo aver ascoltato per anni i vostri consigli mi sento di darvene uno io, dal basso della mia inesperienza: abbiate fiducia nella vita futura più che nella vita passata perchè non si sa mai che il futuro riservi per voi ancora dei piacevolissimi attimi da ricordare.



Renato De Filippi