"Nostalgia, nostalgia canaglia..." cantava Albano nel 1987. Erano gli anni in cui nel mondo del calcio esisteva ancora presente il concetto di "bandiera", ad indicare quel giocatore che lega il proprio destino professionale ad una sola squadra, diventandone un simbolo. Un giocatore che indossa la maglia che fin da bambino sognava di rappresentare, giurando fedeltà alla società che l'ha fatto crescere e diventare un campione. Nostalgia canaglia... dopo i vari Zanetti, Totti, Maldini e Del Piero è arrivato anche il momento di Daniele De Rossi, da poco trasferitosi al Boca Juniors. Con il passare del tempo sono sempre meno i giocatori a cui ci si può affezzionare, quegli sportivi che suscitano sentimenti di identificazione nei tifosi, il cui affetto nei loro confronti sconfina a volte nel culto della personalità. Si rischia così di stroncare la passione che caratterizza il bambino, quella che ha portato ognuno di noi ad amare il calcio, e ci ha permesso di idolatrare un unico personaggio, che come noi ha amato e difeso determinati colori. Il tempo ha portato ad un vuoto di figure in cui immedesimarsi e potersi confrontare, ha di fatto ridotto lo spazio riservato ai sentimenti. Per giustificare questi aspetti vengono spesso introdotti argomenti legati alla professionalità di uno sportivo, intesa come dare il massimo per la squadra in cui giochi. Seguendo tale logica non avrebbe senso pretendere che un professionista rinunci a migliori occasioni. Si favorisce così l'idea di un calcio inteso come attività nel vero senso della parola.

Nostalgia canaglia... Una passione che va affievolendosi grazie ai meccanismi di mercato, tanto da rendere anacronistico il concetto di "bandiera" nel calcio attuale. Le complicanze stanno nel fatto che ormai sono pochissimi i giocatori in grado di resistere alla tentazione di ingaggi stratosferici e ricavi d'immagine elevatissimi. D'altra parte, la società in cui un calciatore milita dovrebbe essere in grado di adottare, difendere e mettere nelle migliori condizioni possibili il proprio tesserato, affinché possa realmente diventare un idolo dei tifosi. Sì, i tifosi, quelli che sono sempre al fianco della squadra, quelli che garantiscono ad un club il suo motivo d'essere, quelli che vivono il calcio seguendo una logica sentimentale, talvolta poetica, che si rifà all'origine di questo gioco, ossia un modo di aggregazione e svago. Questi aspetti sembrano essere stati messi in secondo piano da una generazione, la prossima, che ha pochi tratti con le precedenti, ed è legata a continui e rapidi cambiamenti. Una generazione che, con il passare degli anni, renderà il calcio un gioco per ricchi imprenditori: la trasformazione dei giocatori da bandiere di una squadra a poste contabili rischia di far diventare i club delle vere e proprie società commerciali. Siamo ormai giunti al punto di dover considerare il mercato stesso una competizione. Forse tra qualche anno festeggeremo una plusvalenza quasi come un goal all'ultimo minuto. Immediato risulta allora il paragone con il quotidiano mondo del lavoro, dove il padrone bada più ai costi che ad un'opera ben fatta. Tutto questo è inconcepibile e bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro, restituendo al calcio il ruolo per cui è stato concepito. È fondamentale evitare che le uniche bandiere in grado di resistere a questi cambiamenti siano quelle dei tifosi che sventolano sugli spalti.