Paesi contrassegnati da una storia di gravi violazioni dei diritti umani, negli ultimi anni, sono diventati sede di eventi sportivi di caratura internazionale e mondiale. Chi governa questi luoghi, dove i “valori morali” della nazione permettono di farlo in maniera oscurantista ed illiberale, ha l’obbiettivo finale di un miglioramento dell’immagine pubblica, utilizzano lo sport come una potentissima arma di distrazione di massa.

È questa, in sostanza, la pratica che prende il nome di sportwashing.

La storia non è certamente estranea a queste attività di copertura, un esempio tra i tanti fu il campionato mondiale di calcio 1978 in Argentina.
Nel paese sudamericano già da due anni, con un colpo di Stato, la giunta militare capeggiata dal generale Jorge Rafael Videla, aveva instaurato un regime terroristico basato sulla repressione, sulla detenzione in strutture segrete, sulla tortura e sull'eliminazione fisica dei presunti oppositori politici.
Il gioco del calcio e l’importante evento sportivo divennero distrazione e copertura di uno dei più sanguinosi massacri dell'intera America Latina. Una stima di 30.000 morti e innumerevoli atrocità compiute contro il popolo argentino fecero risultare il 1978 l’anno con il più alto tasso di scomparse ed omicidi che ebbero mai luogo nel Paese.
I lavori portati a termine per la coppa del mondo, quali ristrutturazioni di stadi e costruzione di nuovi, rafforzamento delle infrastrutture e delle strutture di accoglienza per tifoserie e turisti stranieri, miravano a fornire agli osservatori internazionali un'immagine di efficienza, di ordine e di tranquillità dell'Argentina sotto il regime militare.

I pochi tentativi atti a denunciare condizioni in cui versava la nazione e le terribili sorti dei desaparecidos vennero messe a tacere dalla grande macchina di propaganda sportiva che abilmente il caudillo argentino era riuscito a mettere in piedi.
Per anni il mondo non conobbe cronache di rapimenti, torture ed assassinii volgendo il proprio sguardo sul rettangolo verde di gioco, tifando ed applaudendo dopo ogni goal e vittoria della propria nazionale.

Veniamo ora a fatti più recenti focalizzando la nostra attenzione sulla penisola arabica. Paesi che hanno condotto operazioni in grado di ripulire con successo la propria reputazione dagli innumerevoli crimini contro la persona, almeno agli occhi di un osservatore poco attento, sono certamente Emirati Arabi Uniti e Qatar.
Il biglietto da visita per il mondo occidentale è stata l’acquisizione di club europei di calcio.
Nel 2008 lo sceicco Mansour, membro della famiglia reale di Abu Dhabi e capo della società d’investimento Abu Dhabi United Group, diventa proprietario del Manchester City, dando inizio all’ambizioso progetto che condurrà, nel 2014, alla nascita del City Football Group, una holding company che ad oggi detiene il controllo di alcuni importanti club calcistici in cinque delle sei federazioni calcistiche mondiali, ad esclusione di quella africana.
Nel 2011 l’imprenditore e politico qatariota Nasser Ghanim Al-Khelaïfi attraverso la Qatar Sports Investments, sussidiaria del Qatar Investment Authority, fondo sovrano del paese in mano all’emiro al-Thani, rileva il Paris Saint-Germain varando una decade di successi nazionali per la squadra parigina.
Parallelamente alle acquisizioni dei club inizia un processo che vedrà progressivamente i due Stati diventare protagonisti di eventi e manifestazioni sportive di ogni genere.
Quando si digiterà il nome di quel determinato Paese su un motore di ricerca i risultati potranno riguardare l’esito di una gara automobilistica o motociclistica, di una patita di calcio, di una gara di atletica leggera o di un incontro di boxe, ponendo così in secondo piano la violazione dei diritti umani. Quando il nome del Paese appare sulle prime pagine dei nostri quotidiani non è certamente accostato agli inesistenti diritti delle donne, alle forti restrizioni riguardanti la libertà di espressione, a luoghi dove dilaga la discriminazione delle minoranze entiche o alla pena di morte per reati che non sono riconosciuti come tali dal diritto internazionale.

L’ultimo caso finito sotto i riflettori è quello della compravendita del Newcastle United da parte del Public Investment Fund of Saudi Arabia, tra i maggiori fondi sovrani al mondo e riconducibile alla persona di Mohammed bin Salman, figlio del re saudita.
Il businessman Mike Ashley dopo 14 anni ed un rapporto con i tifosi ai minimi termini, segnato da una convivenza oramai forzata, ha lasciato l’80% delle quote del club nelle mani di un nuovo magnate il club per una cifra di circa 300 milioni di sterline (il restante 20% rimane diviso in parti uguali tra la società d’investimenti PCP Capital Partners, che vestì nel 2008 un ruolo fondamentale nell’operazione di acquisto del Manchester City dall’Abu Dhabi United Group, e RB Sports & Media).
Tifosi e sostenitori dei magpies erano già pronti a sognare ad occhi aperti nell’aprile dello scorso anno, fantasticando su grandi nomi per una nuova rosa, e su tecnici con esperienza internazionale per la panchina, ma la trattativa si è conclusa il solamente in data 7 ottobre 2021.

Amnesty International a partire dai primi rumors sulla possibile acquisizione dichiarò che l’operazione rientra a pieno titolo nella messa in atto di sportwashing. Di ciò, poco importerà ai sostenitori del club, come ne possiamo prendere nota guardando i video diffusi in rete dei festeggiamenti al di fuori del St James' Park per il cambio di proprietà, e poco è importato ai vertici della piramide calcistica della Premier League che con il loro benestare hanno permesso una volta in più allo sport di cambiare la percezione pubblica estera di un regime autoritario dove democrazia, libertà d'espressione e stampa muoiono sepolte sotto il verde prato di un campo da calcio inglese.