Dopo le polemiche sul Var, le analisi tecnico-tattiche delle partite di campionato e le emozioni delle coppe europee, ci tuffiamo nella settimana dove l’attenzione verterà sulle nazionali. Tutti ci auguriamo che gli azzurri possano avere la meglio di Ucraina e Polonia, esprimere un buon calcio e lasciarsi alle spalle critiche e dubbi. Se però ciò non accadesse, probabilmente sarà fatto il solito processo nel quale saranno sviscerati tutti i difetti del team italiano, al fine di trovare un capro espiatorio o il motivo del fallimento.

Fatta eccezione per la breve parentesi degli Europei del 2016, dove la squadra di Conte, a discapito dei nefasti pronostici, si arrese solo ai rigori nei quarti al cospetto di campioni del mondo in carica, da dopo la fallimentare spedizione sudafricana a oggi ho letto e sentito le più svariate motivazioni per i nostri fallimenti e sono state fornite innumerevoli soluzioni per venire fuori da questa imbarazzante impasse. Spesso il commissario tecnico è stato additato come principale responsabile degli italici disastri e la figura di Ventura è stata quella sulla quale si sono scagliate le critiche più feroci. L’allenatore ligure ha la sua buona dose di colpe: già arrivato a Coverciano tra la perplessità generale per la mancanza di un palmares altisonante, non è riuscito ad ottenere la qualificazione agli ultimi mondiali, culminando la sua avventura con l’eliminazione dopo uno scialbo doppio confronto con la non irresistibile Svezia. L’ex mister granata, soprattutto dopo la sonora sconfitta subita ai gironi per mano della Spagna, non ha dato un’impronta di gioco ai calciatori italiani e a tutti è sembrato progressivamente perdere di autorità all’interno dello spogliatoio. Premesso questo, però, non si può addossare all’ex C.T. ogni errore, sulla stessa panchina hanno raccolto deludenti risultati anche allenatori con pedigree di tutto rispetto. Tralasciando la breve gestione di Di Biagio, anche Lippi nella seconda esperienza o Cesare Prandelli non sono stati risparmiati da critiche e l’attuale coach Mancini non sta affrontando di certo un periodo idilliaco.

Oltre a quelle indirizzate esclusivamente alla guida tecnica, esistono anche critiche più ampie e prendono di mira il movimento calcistico italiano in generale, includendo nelle varie sfaccettature dei fiaschi azzurri anche la classe dirigente della FIGC, la gestione dei vivai e la mancanza di provvedimenti atti a sfavorire la presenza di atleti stranieri nelle società nostrane. Su quest’ultima possibilità, però, si sono spesi fiumi di parole senza considerare che, nonostante per i tifosi sia perlopiù una passione, a livello professionistico questo sport è un lavoro, che già esiste un limite per il tesseramento degli extracomunitari ma che all’interno dell’Unione Europea non può essere fatto questo discorso poiché con la sentenza Bosman, datata 1995, si è messo fine alla dissertazione. C’è da digerire, inoltre, il concetto che gli italiani non sono sfavoriti nella normale competizione per la titolarità: se un giocatore è meritevole verrà utilizzato ed emergerà perché ogni squadra ne ha tutto l’interesse, indipendentemente dal fatto che sia il signor Rossi o si chiami “Optì Pobà”. Non possiamo sempre pretendere che i club del nostro campionato siano gli unici a doversi sacrificare per la nazionale, a conti fatti rischiano i loro budget sulla propria pelle: quando acquistano calciatori italiani lo fanno a prezzi spesso stranamente inflazionati (riferendomi ultimamente ai trasferimenti di Mandragora, Bertolacci o Gagliardini) e se crescono giovani promesse del bel paese molte volte sostengono costi maggiori rispetto a quelli necessari per talenti in erba importati. Dopo tutte queste difficoltà, però, se le squadre ottengono buoni risultati non vengono adeguatamente ricompensate: le vittorie conseguite attraverso le prestazioni di ragazzi della nostra penisola conferiscono gli stessi benefici di successi ottenuti con rose esterofile. Perché non si fa il ragionamento opposto? Invece di sfavorire l’arrivo degli stranieri, si potrebbe incentivare la valorizzazione di giocatori nostrani con la creazione, da parte della FIGC, di premi per le società che riescono a consegnare atleti alla nazionale maggiore o all’Under 21.

La cosa che mi stupisce maggiormente è che nelle moltissime disamine non è stato mai analizzato un fattore che gli esperti di statistica non sottovalutano: il caso. Coloro che pensano che tutto accada per una ragione predeterminata prediligono il termine destino, mentre i più scaramantici preferiscono il vocabolo fortuna. Con questo non voglio intendere che il disastro tricolore sia arrivato casualmente, senza nessuna ragione, perché come precedentemente disquisito le motivazioni possono essere molteplici, ma che il caso abbia potuto operare in modo determinante sulle nascite a cavallo tra la fine degli anni ’80 e la decade successiva. Il pensiero scientifico moderno, infatti, si basa sul principio del rasoio di Occam ed esso esorta a non costruire troppe ipotesi su una questione perché la spiegazione di un fenomeno spesso è la più semplice e logica. La soluzione a tutti i nostri dubbi potrebbe essere la più disarmante: in quel lasso di tempo in Italia non sono venuti alla luce bambini predisposti a diventare ottimi calciatori mentre, ad esempio, dall'altra parte dell'Adriatico sono nati i vari Perisic, Modric, Mandzukic, Kovacic e Rakitic. Un giovane calciatore, per quanto armato di abnegazione, non potrà mai diventare Totti, Del Piero, Cannavaro, Nesta o Buffon se non ha un minimo di predisposizione naturale. In Italia il caso ha voluto che moltissimi fuoriclasse nascessero negli anni ’70 e questo ci ha consentito di raggiungere la vittoria del 2006 perché la maggior parte di quei talenti erano arrivati alla maturità calcistica. Sia ben chiaro, questo discorso non regge se si torna ad effettuare il paragone con il team svedese che ci ha escluso dall’avventura in Russia, in quell’occasione si poteva e si doveva vincere, ma effettivamente, se confrontiamo i nostri attuali convocati con quelli di nazionali che stanno ottenendo maggiori soddisfazioni, ci accorgiamo subito che c’è una disparità qualitativa consistente.

Il gap, se non troppo ampio, può essere colmato, in parte o totalmente, con l’organizzazione tattica, l’agonismo, la fisicità e le motivazioni ma purtroppo la differenza tecnica che ci separa dagli avversari che in questo momento ci precedono è alquanto lampante. Nuove speranze vengono da Chiesa e Bernardeschi, che sembrano aver cominciato il campionato con il piglio giusto, rivelandosi sempre più determinanti con le rispettive squadre. Se accanto a questi Insigne, Jorginho e Verratti riusciranno a imporsi, come da anni fanno nei loro club, allora potremmo poggiarci su basi solide, in attesa che gli infortunati Spinazzola, Conti e Caldara possano riprendersi e portare nuove alternative al CT jesino.