Si può parlare veramente di calcio giapponese dal 1992 in poi. Perché è in quell’anno che prende vita la J.League, massima serie nipponica di calcio professionistico.
Prima di quella data, almeno in Italia, l’accostamento tra questo sport e quella Nazione diventava immediato solo se si parlava di scarpini: quelli dell’ASICS indossati, ad esempio, da Gianluca Vialli ad Italia 90’.

[caption id="attachment_1887" align="alignnone" width="853"]Gianluca Vialli in scarpini Asics, Italia 90'[/caption]

I calciatori giapponesi, invece, in giro per l’Europa li contavi sulle dita di una mano: Yasuhiko Okudera militò per nove anni in Bundes, vestendo le maglie di Colonia, Hertha e Werder; Kazuo Ozaki, sempre in Germania, dall’83’ al 90’ passò tra Arminia, St.Pauli e Düsseldorf; e Kazuyoshi Miura in Italia, a Genova, nella stagione 94-95.

La J League 

In quegli anni (inizio 90’) il Giappone non se la passa bene. Il boom economico degli anni Settanta appartiene ormai al passato. Alla Borsa di Tōkyō l’indice Nikkei crolla ed il Jiyu Minshuto o Jiminto, il partito liberaldemocratico al governo, è coinvolto nello scandalo Recruit, episodio di corruzione che vede invischiati l’omonima società di telecomunicazioni, esponenti politici e dirigenti aziendali. Bisogna dare all’esterno un segnale forte, un’ immagine di un Giappone giovane ed internazionale, soprattutto, pulito.

Saburo Kawabuchi, nuovo segretario generale della JFA dal 1988, nell’estate del 1960, è stato con la Nazionale in Germania dell’Ovest per prepararsi ai Giochi che il Giappone avrebbe ospitato quattro anni più tardi. A Duisburg ha trovato un centro sportivo all’avanguardia che lo ha affascinato non poco. A sorprenderlo è il fatto che quello stesso centro non appartiene a nessun privato, né tantomeno è utilizzato solo per iniziative statali, ma risulta a disposizione della comunità locale. Kawabuchi pensa così che qualcosa del genere nel suo Paese non c’è e un giorno vorrebbe replicarlo.
Ci riesce nel 1993. La J.League è una sua creatura e, insieme, una rivoluzione sociale. La vita giapponese è dominata dal business, il calcio deve essere uno svago, può essere lo svago. La prima regola sarà che le squadre non dovranno avere un nome riconducibile alle aziende. L’obiettivo, infatti, è costruire dei team nei quali le comunità locali rintraccino la propria identità.
La pianificazione e la programmazione per il lancio è maniacale, solo come in Giappone si potrebbe. Kawabuchi ingaggia la Mizuno, come sponsor tecnico e per disegnare le maglie di tutte le squadre. Poi la Sony Creative Products che si occupa di creare loghi e mascotte.
Molti dirigenti volano in Europa a studiare il calcio: sono rapiti dall’attaccamento alle squadre, ai colori, alle storie. L’Italia è presa come Paese modello per il calore dei tifosi. Inoltre, non si vuole ripetere l’errore commesso dagli americani. La NASL era sparita perché le squadre erano piene zeppe di campioni stranieri che oscuravano quelli locali. La soluzione è fissare a tre il numero di stranieri arruolabili per squadra. E, soprattutto, gli stranieri che saranno tesserati dovranno essere a fine carriera e da inquadrare come esempio di virtù per i giovani che si avvicineranno a quello sport. 

La prima gara della J.League va in scena il 15 maggio 1993, allo stadio olimpico di Tōkyō. In campo scendono il Verdy Kawasaki e gli Yokohama Marino, sugli spalti c'è il tutto esaurito. Kawabuchi ha raggiunto il suo obiettivo, deve solo venderlo meglio ai giapponesi e riuscire ad appassionare il mondo intero al quel nuovo sport Nazionale.
La strada è lunga e complicata, come dicevamo almeno noi in Italia di quel calcio e per quel calcio non avevamo il minimo interesse e la nascita di questo interesse non coincise, nemmeno, con lo sbarco in terra nipponica di giocatori del calibro di Dunga e Dragan Stojkovic, tantomeno con la prima partecipazione del Giappone al Mondiale (1998). Nessuno era veramente conscio che in Giappone al calcio si giocasse seriamente. Poi, è arrivato Nakata, il primo vero giocatore giapponese di livello mondiale.

Hidetoshi Nakata, anche in Giappone giocano al calcio

«Cominciai a giocare a pallone all’età di nove anni. Fu la scuola a indirizzarmi su questa squadra. Eravamo molti ragazzini e un solo campo. Così, ci toccava fare i turni. Mi capitò di giocare anche all’alba, alle cinque o alle sei del mattino». 

Il mito Nakata nasce a a scuola, quando ancora quindicenne prese parte delle rappresentative scolastiche.

Il primo club a credere in lui fu il Bellmare Hiratsuka: una provinciale, dove il giovane Hide trascorre quattro anni e mette le basi a quella che sarà una carriera con pochi precedenti per un orientale. Basta pensare che a diciannove anni è convocato dalla Nazionale olimpica: nessun giapponese under 20 prima di lui aveva avuto l’opportunità di partecipare alle Olimpiadi.

In Nazionale cominciano a rendersi conto delle sue doti, quando a fine 1997 il Giappone si qualifica per i mondiali francesi e, nel 98, si aggiudica la Dynasty Cup, competizione che vede la partecipazione di Giappone, Corea del Sud, Cina e Hong Kong.

«Tre avversari saltati in dribbling in piena area cinese, passaggio smarcante al compagno Motohiro Yamaguchi che conclude a lato. É una delle tante perle esibite dal centrocampista giapponese Hidetoshi Nakata nel corso della Dynasty Cup, torneo del quale il talentoso numero 8 giapponese è stato eletto miglior giocatore. Un elemento davvero interessante, questo Nakata, il solo fra quelli visti a Yokohama che potrebbe fare la sua figura nel calcio europeo». Trafiletto del Guerin Sportivo sul giovane Nakata

L'Europa scopre la perla d'Oriente

Il Perugia, in cerca di talenti a poco prezzo, si accorge di quel talento grezzo, decide di scommetterci.
Un pool di dirigenti umbri e di commercialisti e avvocati si recano in Giappone per trattare con il Bellmare. Nakata sbarca in Italia, noi ci accorgiamo che in Giappone giocano al calcio.
Ilario Castagner, allenatore del Perugia, è ben presto impressionato da Hidetoshi, lo sono ancor di più la famiglia Gaucci e la regione Umbria: il Presidente invade il mercato nipponico con la maglia numero 8, migliaia di giapponesi sbarcano sul territorio umbro per assistere ai match del loro connazionale. 

(In verita, per Nakata l’Italia non è una terra sconosciuta, perché nel gennaio 1996 ha tenuto uno stage a Torino, sponda Juve. Ha conosciuto Del Piero, Vialli, Peruzzi, Ferrara e Lippi. Ha giocato il torneo di Viareggio e capito che il calcio europeo è di un livello superiore rispetto a quello da lui mai giocato).
Nel frattempo arrivano anche le prestazioni. In campo Nakata è tecnico abbastanza da poter essere protagonista nella Serie A degli anni d'oro. Hide ha una grande velocità di pensiero: riesce a calcolare in poco tempo la miglior scelta di gioco, anzi la scelta di gioco non la sbaglia quasi mai. È principalmente un giocatore di equilibrio dotato di un'ottima tecnica di base e fantasia.
In campo riesce a mettere in mostra il proprio bagaglio anche attraverso giocate sopraffine, come la rovesciata magnifica che gli permise di andare a segno conto il Piacenza.
Fatto sta che quel Perugia evita la retrocessione. E molti club europei sono interessati alla perla d’Oriente. Gaucci, però, vuole guadagnare di più, cosi decide di tenere Hide ancora in vetrina. Resterà un altro anno.

L’apice del nipponico

La nuova stagione in Umbria comincia con un nuovo allenatore: via Castagner, dentro Carlo Mazzone. All’inizio i due si capiscono poco, poi trovano un feeling inaspettato. Il giapponese gioca quindici partite e mette a segno due gol. Le prestazioni sono di livello tanto da attirare le attenzioni della Roma. Franco Sensi, che insegue lo scudetto, per assicurarsi il suo cartellino sborsa trentadue miliardi di vecchie lire, Alenichev e la metà del giovane Blasi.

Il 14 gennaio 2000 Nakata sbarca a Roma: è il primo calciatore giapponese all'ombra del Colosseo. Assistiamo all'apice del nipponico.
Alla Roma, nonostante la presenza di Totti e alla conseguente obbligata staffetta con il numero 10 giallorosso, Hide dà il meglio di sé. Gioca dietro le punte o, addirittura, per conquistarsi spazio come centrocampista centrale. Raccontano che Capello lo abbia convinto a provare quel ruolo spiegandoglielo a tavola, muovendo briciole di pane per mostragli come muoversi.
Lo ricordiamo, innanzitutto, per la sfida scudetto Juventus-Roma terminata 2-2. I giallorossi erano sotto di due reti quando il giapponese entrò proprio al posto di un Totti non in giornata. Qualche minuto dopo trovò il gol mentre e, poco più tardi, da un suo tiro nacque la rete di Montella. Quel pareggio si rivelò poi fondamentale per la vittoria del titolo dei giallorossi, tant'è che quella prestazione resta impressa a caratteri cubitali nei cuori dei tifosi romanisti.

Lascia la Capitale però dopo solo un anno e mezzo. Resta in Italia, su di lui scommette 60 miliardi di lire il Parma di Tanzi. Durante la sua prima stagione è decisivo nel trionfo dei ducali in Coppa Italia: segnando in semifinale, contro il Brescia, e successivamente nella finale d'andata con un gol sempre alla Juventus. In gialloblù colleziona 92 presenze e nove reti, prima di trasferirsi al Bologna in prestito nel gennaio 2004.
Da felsineo ritrova Mazzone che tanto aveva spinto per averlo nel suo organico, non riesce a incidere. Non è il Nakata che avevamo visto in precedenza, ha qualche malessere di natura mentale dicono, sembra stanco. Sono le conseguenze della popolarità.
Cambia ancora maglia in estate, va a Firenze. In viola non va bene, non gioca quasi mai e, prima di annunciare prematuramente il suo addio al calcio, decide di trasferirsi in Inghilterra alla corte del Bolton per prepararsi al Mondiale del 2006.

La fine di un amore

«Per tutta la mia vita ho giocato solo a pallone, quindi non sapevo com’era il mondo fuori dal calcio. Volevo sapere cosa succede fuori dal mondo e cosa posso fare io per il mondo. Quando ero calciatore ho viaggiato molto, ma ho visto solo hotel, stadi, aeroporti. Avevo voglia di partire da solo alla scoperta di paesi e popoli che mi affascinano. Ho voglia di vedere da me il mondo, non attraverso i giornali o la tv. Sono un ragazzo semplice e voglio che la gente mi veda come un tipo normale, non come un calciatore famoso. Quando la gente mi riconosce, spiego che sono un semplice cittadino alla ricerca di nuovi orizzonti».

Il ritiro anticipato a 29 anni, dopo il Mondiale in Germania, ha fatto il giro del mondo e segnato la carriera di Hide quasi quanto i due tiri che hanno permesso alla Roma di vincere lo scudetto.

Nakata non era più brillante in campo, ma restava il calciatore asiatico più famoso al mondo. Quella fama però non gli permetteva di divertirsi, forse non l’aveva mai fatto:

“Ancora non capisco come le persone possano essere tifose di calcio: io non mi diverto a vedere nessuno sport. Mi piace il calcio, ma non userei mai la parola “amore”, dato che non lo guardo mai. Negli ultimi tre anni mi divertivo sempre meno, per via degli infortuni, degli allenatori…».

Sentiva di non poter più calciare un pallone solo per soldi, perché adesso si parlava meno di calcio che di promozioni. Il suo gioco, la sua fantasia, era stato una benedizione per un calcio alla ricerca di una stella internazionale da mostrare, sotto la quale luce esibirsi e crescere sull'onda dell'interesse globale.

Il suo successo resta, e probabilmente resterà, senza precedenti per un giocatore orientale, diventato brand personale e Nazionale, garanzia di visibilità per un sistema calcio intero.

Nakata è stato per anni il migliore sponsor del calcio giapponese, l'immagine che tanto volevano darci. Non solo ha fatto si che i giapponesi si avvicinassero al calcio, ha reso possibile che a quel calcio ci avvicinassimo anche noi.

Nakata, anche in Giappone giocano al calcio...