Chi non ha mai covato, da ragazzino, segretamente o meno, il sogno di divenire un giorno calciatore di fama internazionale?
Capita a chi frequenta fin dalla tenera età le scuole-calcio dislocate sul territorio muovendo i primi passi in un contesto già modellato sulla falsariga di una struttura calcistica professionale.
Capita a chi si ritrova a far parte dell’oratorio e viene inserito nella lista della squadra partecipante al torneo parrocchiale organizzato in occasione delle festività del santo patrono per finalità benefiche ed il quale, puntualmente, terminerà con almeno un paio di risse perché a nessuno interessa ma poi si fa a botte per portarsi a casa il trofeo.
Capita a chi gioca nel parco più vicino, ritrovandosi con la solita combriccola dopo i compiti del pomeriggio (Pirandello da una parte e lo studio di funzione dall’altra erano gli ostacoli principali al fatidico momento), dividendo le squadre con un “pari o dispari” che monetina dell’arbitro scansati.
Capita a chi durante le vacanze estive conficca due infradito nella sabbia dando appuntamento a chiunque passasse di lì a mezzogiorno in punto, tanto per non farsi mancare niente, con il solito simpatico del gruppo che tenterà di emulare Aldo nella celebre scena del celeberrimo lungometraggio “Tre uomini e una gamba” del trio comico più famoso d’Italia e il fine-match festeggiato con l’immancabile tuffo in mare nella speranza che l’animatrice per cui tutti si erano presi una cotta guardasse proprio in quella direzione durante lo sfoggio del caratteristico entusiasmo adolescenziale.
Capita a chi si ricava uno spazio qualsiasi, come può, perché “l’importante è che abbiamo un pallone che rotola tra i piedi”.

In qualunque di queste casistiche ci si possa ritrovare (o essere ritrovati) c’è un comune denominatore: chiunque fantastica almeno per una volta di diventare un campione di questo sport, capace di trascinare la propria squadra del cuore alla conquista della Champions League o la propria Nazionale sul tetto del mondo.
Sì, non ci sono dubbi: vincere una delle due competizioni, la più importante rispettivamente per club e per Nazionali, è l’esperienza più gratificante per chi intraprende la carriera professionistica.

La sfida che si pongono queste poche righe è, dunque, riuscire a dare una risposta ad un quesito divisivo come pochi nell’ambito di questa disciplina: se si dovesse scegliere solo tra uno di questi due titoli, sarebbe preferibile vincere il Mondiale o la Champions?
È evidente che la risposta non può essere univoca: ognuno avrebbe le proprie rispettabilissime preferezne, ma se la soluzione fosse così semplice non sarebbe stimolante.

Ecco, pertanto, la mia analisi.
1) Dobbiamo ben distinguere la Coppa dei Campioni dalla Champions League. È evidente che, fino a venti anni fa, la domanda sorgente dell’articolo non avrebbe avuto alcun senso di essere posta. L’antenata della Champions, per quanto ambita, non godeva assolutamente del fascino rivestito dall’attuale formato, per i motivi che ben sappiamo: le grandi squadre erano presenti limitatamente (addirittura in molti, come scrissi tempo fa, reputavano la Coppa UEFA dell’epoca molto più competitiva in quanto vi partecipavano numerose squadre dei top campionati), il formato era più semplicistico (non esisteva la fase a gironi) e i campionati nazionali avevano molto più peso rispetto agli anni recenti.
E poi, la musichetta nel prepartita che rende tutto più colorato, più intenso, più epico.
Quindi, attenzione: quando si fa il confronto su cosa sia più importante vincere bisogna prendere come metro di paragone solo il nuovo assetto della più importante manifestazione per club organizzata dalla UEFA.

2) Premesso quanto sopra, analizziamo in modo lucido le caratteristiche principali dei due tornei.
A livello strutturale, si assomigliano notevolmente: una fase preliminare (nel caso della Champions i turni estivi, in quello del Mondiale le qualificazioni confederali), una fase a gironi e, infine, la fase ad eliminazione diretta fino all’atto conclusivo.
Sotto il profilo emozionale, dunque, c’è parecchia affinità tra le due competizioni.
Le analogie, però, a mio avviso terminano qui.

3) A livello temporale, infatti, c’è una profonda differenza: la Champions viene disputata ogni stagione mentre la Coppa del Mondo ogni quattro anni. Un abisso, che provoca, dunque, delle ricadute non indifferenti sulla carriera di un calciatore: mediamente, infatti, un ottimo atleta riesce a disputare nella sua carriera dalle 3 alle 4 edizioni iridate, contro un numero medio molto più elevato di partecipazioni alla Champions ove militasse frequentemente in team di primo livello.
Ergo, messa su questo piano, sicuramente il Mondiale è più affascinante in quanto più raro.
Se perdi una finale di Champions League puoi riscattarti l’anno dopo; se perdi la finale mondiale, le probabilità di ritrovarsi a vincere il titolo sono nettamente più basse.

Questa argomentazione, però, può assumere una lettura diametralmente opposta: le competizioni “corte” o comunque ad eliminazione diretta premiano senz’altro squadre che devono essere attrezzate ma, oggettivamente, ci possono essere dei fattori che ne influenzano in modo decisivo l’andamento; molto più complesso verificare i medesimi effetti su una competizione a più ampio raggio e con una frequenza maggiore.
Cosa voglio dire?
In Champions League, è evidente, ci sono state tantissime situazioni al limite: la rimonta pazzesca del Liverpool nel 2005, il Porto vincitore nel 2004, il Chelsea che vince a casa del Bayern ai calci di rigore nel 2012, il Real Madrid che fino a un minuto dal termine stava per terminare una stagione fallimentare nel 2014.
Nel complesso, però, prendendo a riferimento gli ultimi venti anni, una grande percentuale di successi si può definire ampiamente specchio fedele dei valori di quella determinata stagione o di quel definito periodo (il Real di inizio secolo, il Milan di Ancelotti, lo United di Ferguson, il Barcellona di Guardiola e Messi, l’Inter e il Bayern del Triplete, il Real Madrid di Zidane e CR7 e, in ultimo, il Liverpool del “Mago” sono da ritenersi autentici squadroni).

Ai Mondiali, di contro, la percentuale di successi dovuti ad un sorteggio benevolo o a un rigore sbagliato è molto più elevata.
Caso eclatante: negli anni ’70 la squadra più forte, più bella e più rivoluzionaria della storia del calcio è stata l’Olanda ed in entrambi gli appuntamenti che l’hanno vista protagonista ha ceduto in finale solo contro i padroni di casa (rispettivamente la Germania Ovest nel 1974 e l’Argentina nel 1978). Pazzesco che una corazzata simile non abbia trionfato!
E questo solamente a titolo esemplificativo: la stessa Italia nel 2006 era probabilmente molto meno tecnica delle rose precedenti (dal 1990 al 2002) eppure ha vinto in quel mese in cui è girato tutto per il verso giusto.

In sostanza, la forza del dettaglio o del momento rende il Mondiale, a mio avviso, meno mitologico sotto questo punto di vista rispetto alla ex Coppa dei Campioni, che rimane anch’essa molto influenzata dal parametro “serata giusta/storta” ma che sicuramente, in virtù della maggior frequenza, alla lunga assicura un maggior equilibrio in termini di valori.

4) C’è poi un altro elemento da non trascurare: la competitività.
Parliamoci chiaro, allo stato attuale, sono pochissime le Nazionali che possono pensare di poter vincere il campionato del Mondo. Molti calciatori originari di Paesi che non hanno ancora la caratura tecnica per poter ambire ad un traguardo di tale portata sono già in partenza limitati. I vari Best, Sheva, Weah, Eto’o, Drogba, solo per citarne alcuni, quali possibilità avevano di poter vincere? Nessuna, oggettivamente parlando.
Questo si lega all’altro aspetto del fenomeno: il tasso tecnico della Champions League è più alto della fase finale della rassegna iridata.
Su questo, onestamente, credo ci possano essere poche discussioni: avere le migliori squadre d’Europa comporta la presenza contemporanea dei talenti più importanti, cosa che non può accadere ai Mondiali per via della propria struttura intrinseca che, di fatto, esclude alcuni tra i più forti calciatori del panorama calcistico in quanto facenti parte di una squadra nazionale non di altissimo rango. Inoltre, molte grandi squadre (mi viene in mente la Francia del 2018) hanno talmente tanti elementi di spicco che spesso si trovano costrette a lasciarne diversi a casa per via dei limiti numerici dei convocati.
Ragionando sotto questo aspetto, dunque, ancora una volta riterrei la Champions League molto più complicata da vincere e più soddisfacente.

5) CONCLUSIONI
Come credo sia evidente, personalmente ritengo sotto il profilo squisitamente tecnico e professionale molto più prestigiosa la vittoria della Coppa dalle grandi orecchie rispetto alla Coppa dorata.
Ci tengo però a sottolineare che parlo dal punto di vista tecnico e professionale perché, dal punto di vista del cuore, sono di tutt’altro avviso.


L’inno nazionale, l’estate delle notti infinite con pizza e patatine, il riunirsi tutti insieme con la voglia di tifare per una volta la stessa maglia, senza distinzioni tra Inter, Juventus e Milan, rende l’avventura iridata stuzzicante e unica nel suo genere.
Da ragazzino, quando si segnava la decima rete che sanciva la conclusione della partita, l’urlo classico che si tirava fuori era “Campioni del Mondoooooo”. Certo, sembra una barzelletta messa così, ma chi si è ritrovato in una delle categorie di inizio brano, capirà cosa intendo dire.
Essere campioni del Mondo significa arrivare in cima all’Olimpo, trasportarsi in un’altra dimensione.
Ecco perché, la risposta al quesito, comporta due risposte differenti per quanto mi riguarda: dal lato tecnico e relativo all’ambizione professionale vorrei vincere la Champions League, dal lato umano e sentimentale vorrei vincere tutta la vita la Coppa del Mondo.


TITOLI DI CODA

Lev Jasin, Omar Sivori, Gigi Riva, Gabriel Omar Batistuta, Zico, Roberto Baggio, Christian Vieri, Pavel Nedved, Emilio Butragueno, Alan Shearer, Zlatan Ibrahimovic.
Cosa hanno in comune questi nomi straordinari?
Sono solo alcuni tra i più grandi calciatori di sempre che, per motivazioni differenti, non hanno mai vinto la Champions League o il Mondiale.
Sembra pazzesco, ma a volte il calcio non premia sempre a dovere chi dimostra di essere stato ad altissimi livelli per tutta la carriera.
Per lasciare l’impronta nella memoria collettiva, quindi, a volte può anche non essere necessario vincere i due altisonanti trofei.
Vincere è importante ma per entrare nel cuore degli appassionati non serve o non basta.

Perché in fondo, il calcio, è solo l’applicazione professionale di quei ragazzini che al campetto, all’oratorio, al parco, in spiaggia o in qualsiasi posto adattabile corrono come dei forsennati, sperando solo per un momento di essere campioni.