Più volte ho ribadito come non ami guardare in casa d'altri, bastandomi i miei problemi (pur modesti, mi sia consentito) di juventino.
Non desidero contraddirmi ora, ma le crisi che stanno attanagliando alcune delle rivali storiche, non sono un godimento per chi si senta veramente sportivo, al di là della casacca che indossa.
Nella contingenza, voglio riferirmi soprattutto ad alcune compagini di nobilissimo blasone: le due milanesi e la romana giallorossa.
Non mi sento in grado di affrontare una disquisizione sul valore tecnico o sulle problematiche acute che ora dilacerano maggiormente le tre società (giocatori, mister, stadi di proprietà, tifosi più o meno appassionati).

Non posso peraltro non notare come un comune denominatore, per le tre, sia rappresentato dal fatto di essere (tutte) sotto l'egida di una proprietà a tutti gli effetti STRANIERA.
Questo non vuol dire che la medesima sia farlocca (sotto questo profilo il Milan ha già dato, nel recente passato, ma ora pare affrancata dal problema), ma sta comunque a significare che il club deve ora rispondere ad interessi, ad abitudini, a tradizioni, a voleri che non sono di casa nostra.

Apro una parentesi.
Uno dei termini più usati (ed abusati) al giorno d'oggi è senza dubbio quello di GLOBALIZZAZIONE.
E non è cosi sbagliato che lo sia.
Il progresso negli spostamenti materiali, la rete del web, la possibilità di interscambi un tempo proibitivi oggi alla portata addirittura in tempo reale favoriscono certamente una sorta di "rimpicciolimento" del globo.
Il fenomeno, per altro, può valere per le notizie, per le immagini, per tutto ciò che sia in "divenire" o in "appena accaduto". Mi sembra che funzioni molto, molto meno, per tutto ciò che è tradizionalmente radicato dentro di noi.
Non si può globalizzare la Storia di ciascuno di Noi.
Non vi è dubbio che il Calcio Italiano abbia tradizioni radicatissime. Nato come espressione di puro campanile, il fenomeno è andato a mano a mano nazionalizzandosi, in maniera abbastanza uniforme. Internazionalizzatosi poi in Europa, dapprima e nel Mondo poi, ha comunque sempre goduto di una "italianità" riconosciuta (gioco all'italiana, catenaccio all'italiana, e quant'altro).

I vecchi club sono cresciuti di pari passo con l'industrializzazione post bellica progredita fra le due guerre e non a caso figure carismatiche dell'industria e "dei ex machina" del miracolo economico italiano hanno saputo fungere da Mentori importanti.
Parlo degli Agnelli, dei Moratti, dei Viola, dei Sensi, dei Berlusconi, per limitarmi alle tre società in esame.
Eventi di ordine sociale e politico hanno, poi, sovvertito strutture, realtà e potenze economiche. In aggiunta, leggi di cosiddetto Fair Play finanziario, distribuite a macchia di leopardo nel continente, hanno ulteriormente contribuito ad imbrogliare le carte. Così molte società gestite alla vecchia maniera "dei patrons" si sono trovate di fronte a difficoltà  che sono sembrate insormontabili soprattutto sotto il profilo amministrativo ed economico.
È  quindi stato giocoforza ricercare capitali freschi per sanare le situazioni più traballanti.

Il gioco della globalizzazione, cui si accennava in precedenza, ha aperto cosi la strada a nuovi comandanti, giunti da lontano, da molto lontano, fra il tripudio della gente, cavalcando onde di dollari e di yen.
Ecco, quindi, che storiche società italiane si sono trovate totalmente alla dipendenza di proprietà totalmente nuove, che poco o nulla condividevano della loro tradizione e del loro passato. Penso che, tolti gli ultimi anni, conoscessero anche molto poco della loro storia. Anzi, l'unico target della pura sopravvivenza di bilancio è spesso  stato taciuto e mascherato come una possibilità di espansione verso i paesi di origine dei "salvatori". A processo in corso, l'esperienza, nella sua interezza non pare rivelarsi così salvifica per i "beneficati". È ben vero che la partita doppia pare recuperata, ma i gruppi, in realtà, sono allo sbando più completo. La situazione può essere paragonata a quella di un infermo in gravissime condizioni di salute, tra cui spicca una pesante anemia.
La trasfusione di sangue è d'obbligo, ma, da sola, non basterà a ricuperargli benessere e salute.
Sia chiaro che non contesto che le personalità a capo dei nuovi gruppi siano di second'ordine né ipotizzo che non "conoscano il mestiere".

Sono TUTTI uomini d'affari di prim'ordine, nei loro generi.
Resta il fatto che in Italia, per poter fare veramente BENE,  del calcio italiano bisogna conoscere la storia, sentire la passione, ricordare le tappe fondamentali del proprio club per poterne immaginare di migliori e di più leggendarie, se possibile.

Con tutto il rispetto, non so cosa la dirigenza Suning conosca di Guseppe Meazza, di Alfredo Foni, di Benito Lorenzi, piuttosto che di Helenio Herrera o di Tarcisio Burgnich.
Non so cosa i plenipotenziari di Elliot abbiano vissuto del Milan, dalla Fiaschetteria Toscana al trio di GRE -NO - LI passando per Schiaffino e per Nereo Rocco.
Non so, infine, se Mr.Pallotta sappia cosa sia stato il Campo del Testaccio e la Roma di Alcide Ghiggia, di Giacomo Losi e di Angelo Benedetto Sormani.
Questa distanza dalla conoscenza, direi dall'essenza della squadra, dai miti e dai ricordi dei tifosi stessi rischia di tradursi in una insufficienza gestionale a livello quotidiano.

I problemi, sono molti, e sembrano affrontati a casaccio: ecco il valzer degli allenatori (spesso incolpevoli); ecco la difficoltà di gestione degli ex campioni; ecco i vergognosi ricatti dei campioni attuali, quando decidono di comportarsi come primedonne isteriche.

Queste difficoltà, in verità, non sono nuove di questi tempi; ci sono sempre state.
All'epoca dei Patriarchi, però una parola, uno sguardo, un sussurro di ciascuno dei Capi era sufficiente. 
Lo aveva detto LUI, che ERA LA SOCIETÀ, perché ne aveva ereditato LA STORIA. Così le peggiori tempeste si esaurivano in un bicchiere, mentre, oggi, è peggio di Capo Horn.

Io temo fortemente che se non tornerà il vero carisma, la battaglia sarà perduta, per i Club e per tutto il Calcio Italiano.
Il calcio Italiano NON È  LAS VEGAS,  anche se vogliono farcelo credere.