Esiste un problema di dispersione giovanile da calcio, io l’ho vissuta sulla mia pelle ed è un problema che va affrontato, non perché si debbano forgiare generazioni di fenomeni o calciatori a tutti i costi, ma perché un bambino o ragazzino che non gioca più al pallone è generalmente un bambino o ragazzino che si assuefà ad un piccolo schermo come suo hobby preferito o, nella peggiore delle ipotesi, all’a-socialtà e ad ogni sua distorta articolazione. E comuqnue, oggi più che mai, chiusi in casa come polli in batteria, ci rendiamo conto di quanto sia preziosa la pratica di uno sport ad ogni età. Ma la dispersione calcistica c’è, anche se me ne sono reso conto solo quando, in famiglia, mio nipote di 12 anni ha detto basta.

Le statistiche dicono che solo il 3% circa di ragazzi che giocano a calcio riesce a coronare il sogno di essere un giocatore professionista, giocare in serie A o B, guadagnare soldi, vestire la maglia della nazionale, apparire in tv, nell’album delle figurine (per i nostalgici) e cose di questo tipo.
Ovvio, non tutti possono diventare calciatori.
Il calcio è lo sport più popolare al mondo. Esso è praticato, al contrario di molti altri sport, sotto ogni tipo di clima, di terreno e di strutture più o meno adeguate. A volte quattro pietre che fungono da pali e dei limiti immaginari per traversa e linee di fondo infinite danno la parvenza di un campo di calcio; basta poi una palla e poco altro per iniziare una partita. E’ anche uno tra gli sport più completi, in quanto richiede abilità personali, come quelle tecniche e coordinative, e abilità cognitive ed atletiche. Negli ultimi 30 anni, grazie alle scuole calcio e al loro diffondersi, si è ampliata la possibilità di avviamento al gioco del calcio, sin dall'età di cinque anni. Questa industrializzazione delle scuole calcio, questo diffondersi a macchia d’olio senza un controllo adeguato ha fatto sì che quantità e qualità, però, non camminassero sempre a braccetto. Ma tant'è. Grazie ad esse, i bambini, non avendo più spazi liberi e sicuri in città dove poter esprimere il loro gioco, divertirsi, fare esperienze motorie, ecc..., si ritrovano in un campetto con un bel terreno di verde sintetico, dove imparare il gioco del calcio.
Insomma, le scuole calcio sono, sotto certi aspetti, una forma molto democratica di sport, perché fin quando si giocava solo per strada, chi giocava erano solo i più bravi, i più forti e anche chi portava il pallone... ma quello è un altro spaccato di società, una società che quasi non c'è più. Invece nelle scuole calcio tutti hanno diritto di giocare, di essere allenati da mister che attenzioneranno il percorso psico-motorio del bimbo o ragazzino o ragazzo, di crescere facendo sport, che è palestra di vita. Certo, c'è la retta da pagare, che svilisce questa dimensione di democrazia calcistica, tuttavia bene o male i soldi per quello si trovano sempre, anche perchè l'offerta è varia pure sotto l'aspetto economico. 

Fin qui, tutto bello: più campi, più bambini che giocano, più sport. E allora dove sta il problema? Perché si parla di abbandono precoce? Da cosa nasce l’abbandono precoce o giovanile nel gioco del calcio?
Diverse sono le componenti.

Anzitutto nasce dalla falsa speranza, dall’illusione che è tutto molto semplice in un mondo fatto sempre meno di talenti e sempre più di talent. Non basta seguire Master-chef per diventare bravi cuochi, non basta partecipare ad un talent-show per ritenersi un talento, non basta pagare una retta mensile e calciare un pallone, sotto le direttive di un allenatore o sotto le urla di genitori invasati dietro la rete, per diventare calciatori. L'illusione prima o poi svanisce e molti abbandonano.

Poi c’è la vita quotidiana e ciò che la società ci riserva e che ci chiede: esaltazione dell’io, apparire forti e ricchi e famosi… tutto questo il calcio ad alti livelli lo dà sicuramente, quindi il calcio può essere il miglior mezzo per arrivare ad averlo. Questa aspirazione spesso è fomentata dai genitori del ragazzo, che inquinano il percorso formativo, interferendo con le scuole calcio o società sportive, con i mister o educatori o istruttori e soprattutto con i figli stessi. Il calcio a questo punto non è vissuto più come uno sport con i suoi valori (sacrificio, impegno, rispetto, ambizioni, delusioni, sconfitte, scontri, vittorie miglioramenti), ma solo come un mezzo per avere e per essere. I genitori tendono a far bruciare le tappe ai propri figli, non accettano sconfitte; per loro anche vedere il figlio in panchina è una sconfitta inaccettabile. Insomma, dentro questi campetti in erba sintetica si generano più traumi che valori. E molti abbandonano.

Un altro aspetto importante da tenere in considerazione è la formazione, ma non quella da schierare in campo, bensì quella di chi deve insegnare, cioè istruttori, educatori e allenatori. Perché per ogni categoria, dai primi calci alla juniores, il mister deve avere conoscenze e competenze tali da curare ciò che quel gruppo richiede. In tantissime scuole calcio, invece, si affidano i gruppi dei più piccoli (cioè primi calci e pulcini) a mister appena introdotti nel campo dell’insegnamento o a ragazzi che abbiano semplicemente un passato calcistico, più o meno di rilievo. Ma una cosa è saper fare, altra cosa è insegnare a fare. Non a caso, si è assistito nell’ultimo ventennio, alla nascita smisurata di tante scuole calcio e al propagarsi di tutta una serie di mister, armati di fischietto e tuta ma sprovvisti di conoscenze pedagogiche, fisiologiche, comunicative per potersi approcciare a bimbi dai cinque anni in su. Sapere qual è l’età giusta per far svolgere alcune attività anzichè altre è fondamentale per un percorso formativo rispettoso della crescita di ogni individuo; avere conoscenze di comunicazione dà la possibilità di dire le cose nel modo corretto, preciso e stimolante e di trasmetterle, quindi. Spesso questo non succede e molti abbandonano.
Ergo, aspiranti genitori di fenomeni, istruttori poco qualificati mischiati a mister invece qualificati sono un bel mix, che però da solo non basta a dare una risposta esaustiva al nostro quesito: perché l’abbandono precoce?
C’è un altro elemento, di cui non si può non tenere conto: i campionati. Mi riferisco a tutti quei campionati dilettantistici, dove l’errata formula dà pochissimo spazio ai giovani, annullando o addirittura riducendo al minimo la competizione tra loro stessi, riservando una piccola fetta solo per i migliori. E tutti gli altri giovani che fanno? Semplice, abbandonano.

Quindi se è vero, come è vero, che il calcio non è per tutti, è anche vero che bisogna rivedere il calcio giovanile, dare di nuovo ad esso la connotazione di uno sport e non di un mezzo per la gloria, assicurare la corretta formazione psico-motoria, la giusta mentalità, le giuste attenzioni e lo spazio che i giovani meritano, per la continuazione di uno sport che, altrimenti, resterebbe solamente un sogno infranto.
E oggi, più che mai, abbiamo bisogno che i nostri figli tornino a sognare semplicemente di un pallone rincorso all’aria aperta. E che continuino a rincorrerlo per il solo gusto di farlo.