Il momento più pericoloso di una scalata è quando arrivi in vetta. 
Non sono mai stato un appassionato di alpinismo. Le altezze, ad essere sincero, mi fanno una certa impressione e alla montagna ho sempre preferito il rumore delle onde. Il mio vecchio però di scalate se n’è fatte, nel corso della sua vita. Il suo unico cruccio fu non tentare i grandi picchi nel Nepal, cosa che invece fecero alcuni suoi amici. Per sua (tutt’altro che) magra consolazione, riuscì a toccare il tetto d’Europa, il Monte Bianco. 
Sono quei racconti che, di tanto in tanto, ricapitano. Quei racconti che lo toccano nel profondo, perché riportano alla memoria non solamente immagini e suoni, ma soprattutto emozioni, gioie, paure. Racconti che, sebbene conosca a memoria, io ascolto volentieri perché è sentire la sua gioventù tornare a bussare alla porta. Sentire le sue conquiste, ma anche le grandi sconfitte che, sebbene dolgano come una ferita mai completamente rimarginata, alla fine hanno portato con loro un insegnamento. 

- Non è raggiungere la vetta il vero obiettivo - mi dice spesso - ma è portare a casa la pellaccia!

La vetta è infatti il luogo più pericoloso. E’ dove l’ossigeno scarseggia di più. E’ dove il sangue ribolle a causa della decompressione e qualche vaso può rimanere ostruito da una bolla. Ma soprattutto, è dove la tua mente può essere colta dal pericolo più tremendo: il credere che il peggio sia passato. Che la partita sia stata definitivamente portata a casa. Non è così. L’alpinismo è pieno di storie truculente, di scalatori scomparsi, caduti dentro crepacci, uccisi dal freddo estremo. Storie di morte e rassegnazione, le quali però non risiedono solamente in spedizioni fallite. Molti alpinisti infatti trovarono triste fine dopo aver raggiunto il loro obiettivo, dopo aver toccato la vetta. E spesso ciò è accaduto a causa di disattenzioni banali. 

- Hai veramente raggiunto la vetta, quando sei tornato per raccontarlo

E’ vero. E’ maledettamente vero. E questo non solo nell’alpinismo, ma in tutte le situazioni, nello sport come nella vita. 
Quanto successo al Milan in questa stagione ne è una prova diretta. Sebbene milanista nel sangue, nella carne e nell’anima stessa, il derdy di ieri non ho potuto vederlo. Saputo a fine pomeriggio il tremendo responso del campo, devo essere sincero, non mi sono intristito. Per buona pace dei cugini, l’Inter per me equivale in rivalità a qualsiasi altra squadra (lascio ad altri la professione del trespolo). Più che altro, mi sono preoccupato. Permettetemi di essere ancora più sincero. Allo scudetto non ho mai creduto. Magari, come avrebbe detto il mio caro Dylan Dog, “non ci ho creduto, ma ci ho sperato”. Detto ciò, essere stabilmente lassù da inizio campionato, vedere sgambettare splendidamente una squadra di giovincelli e notare come la nostra società si stia solidificando (zero debiti, signori), era per me già motivo di vanto. Ciò nonostante, una paura non mi ha mai abbandonato. Quella del: e se imbocchiamo un periodo nero, riusciremo ad uscirne con le ossa integre? Una volta raggiunta la vetta, riusciremo a superare la mancanza di ossigeno, a evitare un’embolia, a non farci sopraffarre dal senso di onnipotenza?

Non posso ancora rispondere a questa domanda. La mia preoccupazione è destinata a durare ancora qualche settimana. Perché, cari amici rossoneri, il momento più duro deve ancora giungere, ahinoi. Perdere il derby infatti non è stato un responso. Questo periodo di negatività è solamente il punto di partenza del sentiero di ritorno, quello che potrebbe permettere al Milan di portare a casa la pelle (e con onore) qualunque sia il risultato finale, oppure terminare nel crepaccio della depressione. 

Siamo stati superbi. Inutile nasconderlo. A testimoniarlo, i sorrisini di Calabria dopo l’ammonizione voluta contro il Crotone, gli sguardi compiaciuti dei compagni e soprattutto l’atteggiamento di La Spezia. Sì, siamo stati superbi, e nel momento peggiore. Il momento in cui le gambe cominciavano a dolere per la stanchezza, per aver trainato il carretto per tanto tempo, per le molte assenze e i costanti infortuni. In termini alpini, questo è il momento in cui, durante le prime fasi di discesa, ci si rompe un rampone e il tempo annuncia bufera. Il momento in cui o si vive o si muore. Non c’è via di mezzo, non c’è alternativa. E’ il momento in cui le paure si fanno fitte, urlano nella nostra testa ammorbidendo i tendini, liquefano i muscoli e le ossa. Il momento in cui smettiamo di credere in noi stessi e l’abisso si apre sotto di noi. 
Il momento in cui ci si trova appesi lassù, con le gambe penzolanti in un vuoto senza fine, è quello dove tutto si può fare più chiaro o, al contrario, ancor più tenebroso. E’ proprio lì che tutto ritorna alla memoria, il percorso che si è fatto, gli imprevisti che si è affrontati, le sfide vinte. E’ stato solo per mera fortuna, che tutto ciò è accaduto, o è stato per qualcos’altro?
La più grande menzogna che si può dire a se stessi è che tutto è accaduto a causa di questo, di quello, di lui, di loro, dell’altro… quando in realtà la causa principale delle nostre vittorie e delle nostre sconfitte, siamo noi stessi. 
C’è chi parla di fortuna. C’è chi sproloquia su rigori e momento no degli altri. La grande corsa del Milan è stata solo questo? Che lo credano gli altri. Il Milan è stato fautore del proprio destino, nel bene e nel male. E in un momento come questo, per quanto nero, non bisogna mai dimenticarsi ciò che si è fatto, ciò che è stato conquistato con enormi fatiche. 

Per la prima volta dopo anni, ora non so nemmeno più quanti, vedo un Milan fatto di giovani rampolli di belle speranze, con un’idea di gioco, un’identità e una società per lo meno solida alle spalle, a discapito di chi siano i proprietari. Dopo anni di limbo, è veramente il momento di piangersi addosso per un periodo di estreme difficoltà, per quanto auto inflitte? O è forse il momento di vedere il vero avversario, quello reale, quello che vive dentro la testa di allenatore e giocatori? Quello che ha portato tutti a peccare di superbia prima, a flagellarsi nella depressione dopo. Un nemico scialbo e infido, che solamente con la lucidità si potrà sconfiggere. E quando, ma soprattutto se, ciò avverrà, allora la lunga strada del ritorno si farà più nitida e, comunque finirà il percorso, si saprà di aver fatto qualcosa di grande. Di aver posto i primi passi di un grande viaggio, di un grande progetto di cui oggi vediamo solamente i germogli. 

La strada è lunga, il freddo è rigido, ma la meta è laggiù, da qualche parte. 
Forza Milan. 
Un abbraccio. 

Igor