Il momento prima di andare a dormire, da fanciulli, è qualcosa di magico. Una poesia che la si vive sotto le coperte del letto e del tepore che circonda tutto il resto della stanza. Inermi, impotenti, come se fossimo assuefatti dalle parole che mamma o papà spendono per accompagnarci nel sonno e nel sogno. Immobili, ascoltiamo quello che hanno da di dirci. La nuova storia che stanno per raccontarci.
Il tutto, inizia con un “c’era una volta”. Una rassicurazione, perché in quelle tre parole, sappiamo che tutto finirà nel migliore dei modi. L’antidoto che scaccia tutti gli incubi che il nostro subconscio si accinge ad incontrare. Un racconto che magari non ne sappiamo l’esistenza, ma che certamente ci farà stare bene e chiudere gli occhi con serenità.
Ecco. Tra le tante favole, una di queste inizia con “c’era una volta”, per poi essere accompagnata da un nome: Francesco Totti

Un racconto che non parla di calcio

Per quanto Totti lo conosciamo e lo abbiamo conosciuto per quello che ha fatto in campo e anche fuori, con le sue meravigliose opere di beneficienza, il film di Infascelli, non parla di calcio.
Racconta la vita, i dissapori, i sentimenti. Parla di un uomo genuino, un uomo comune come tutti noi. Viaggia tra i flashback di quando era ragazzo, della sua responsabilità una volta diventato capitano, poi marito, successivamente padre e infine aeterno.
Non si parla di un film, sarebbe troppo riduttivo. È di più. È come se ci mettessimo sul divano ad ascoltare ciò che una persona ha percepito in tutti questi anni, per tutto questo tempo. Di come ha vissuto le proprie emozioni, gioie e paure. E non ha requisiti. Non bisogna essere tifosi della Roma o di qualsiasi altra squadra. Si può anche non essere tifosi. Perché non si parla di Totti, ma di Francesco.

La spontaneità è l’elemento caratteristico

Come ci aveva abituato lui. In campo, nelle conferenze, nelle battute. Francesco Totti è un uomo semplice. Come semplice è stato il suo modo di giocare. Non perché guardava il calcio con superficialità, anzi, la sua prima parola è stata palla. Ma perché gli veniva naturale. Le movenze che gli appartenevano in campo, le aveva anche da fanciullo.
Così il racconto. Spontaneo, schietto. Sempre accompagnato dalla sua voce e questo lo ha reso ancora più genuino. E poi le parole del Capitano si riconoscono: un po’ sbiascicate, con un linguaggio informale, sgrammaticate, con qualche parolaccia sparsa. Questo l’ha reso un prodotto originale.
Se fosse stato narrato da un giornalista avrebbe perso tutto quel patos. Con lui no. È come se stessimo in una stanza e lì ad ascoltarlo. Senza annoiarci mai, privo di monotonia. Con questo “film”, Alex Infascelli, ci ha offerto la possibilità di “parlare” con Francesco.

Il documentario mette in risalto i modelli di vita

Un racconto che non si limita a ripercorrere le tappe più importanti della carriera e della vita di Francesco. Va oltre. Supera la razionalità, distanzia la pragmaticità e arriva in pole position con i valori o modelli a cui tutti noi abbiamo a che fare quotidianamente. Porgendo la guancia al passato, osservando il presente e ipotizzando il futuro.
È presente il credere in qualcosa o in qualcuno. Che non è semplicemente il sogno di diventare calciatore, ma mette in evidenza l’importanza di amare. Di mettere da parte il materialismo e il successo – rifiuto del capitolo Madrid - per conservare l’amore e il far prevaricare il sentimentalismo per una sola sposa – la Roma. È avere un idolo – Giannini – e diventarlo per qualcuno. Per un popolo. È responsabilità in campo – essere capitano – e fuori – marito e papà – dal manto verde.
Francesco ci prende per mano e ci accompagna dentro di sé.

Il senso diacronico

Quanti sono 28 anni? Un quarto di secolo, 10 220 giorni circa, 245 280 ore, 14 716 000 giorni e 883 008 000 secondi. Un’infinità se immaginiamo come potrebbero essere i nostri futuri. Ma ci vuole poco a rimembrarli, specie quando li hai vissuti intensamente.
Infascelli ha fatto questo. Ha costruito il senso diacronico del tempo. Lo ha fatto meticolosamente. Come? Lasciando che Francesco ci raccontasse, con la sua voce, gli aneddoti della sua vita; attraverso le fotografie e i video che inondavano il filmato; usando i primi piani di Totti: incappucciato, arrabbiato, sorridente, triste. Un’altalena di espressioni che risaltava le sue rughe, come per dire, il tempo è passato. Per poi, stemperare il tutto con un “manda un po’ un attimo indietro”.

Il regista fa l’allenatore e Totti scende di nuovo in campo

È esattamente così. Alex decide di affidare le chiavi del match a Francesco, perché con lui niente può essere insuccesso. Si siede in panchina, dà qualche dritta attraverso la diacronia del suo tempo e poi è Totti a parlare. È lui a trasferire le emozioni a chi lo sta guardando.
Con quella voce fuori campo, con le riprese della sua carriera e della sua vita personale che segnano il decorso delle lancette dell’orologio, e con le riprese amatoriali che si intrufolano nel cuore del Capitano. E come scritto poc’anzi, con quel “manda un po’ un attimo indietro”, affida a Francesco la piena conduzione.
Come dice Totti, “quando c’ho tutto sui piedi, difficilmente sbaglio”. E, infatti, non ha sbagliato. La scelta “tattica” di Infascelli si è dimostrata vincente e, Francesco, con un altro dei sui “cucchiai”, ci ha fatto piangere tutti.

Manda un po’ un attimo indietro

E qui si vive e rivive tutto il “c’era una volta”. Si ripercorre tutta la storia di Francesco. Successi, insuccessi, amori, dissapori. Di tutto. Non ce la facciamo a sorbirci un mix di emozioni così forti senza il fazzoletto in mano. È una sfida ardua e da Guinness dei primati.
Con quel manda un po’ un attimo indietro, Francesco, vuole dirci tante cose. Non vuole nemmeno lui arrivare alla conclusione. È troppo doloroso, anche se si tratta solo di raccontare.
Ci descrive lentamente e felicemente i suoi primi scorci di carriera. Quando tocca con mano le emozioni per lo scudetto e la gioia indescrivibile del Mondiale; non va con l’acceleratore quando ci parla di Ilary e della gioia di sentirsi addosso lo sguardo del primo figlio; ma quando arriva alla conclusione, si quieta, tace, lascia che parlino i filmati, le immagini. Lascia la responsabilità al tempo, a quel maledetto tempo

Francesco è diventato Totti anche grazie alle sue figure di riferimento

E ce lo narra in un racconto che è più suo che del regista. Vito Scala è stato per lui una delle figure più importanti. Sono arrivati alla Roma nello stesso momento e, pur facendo percorsi distinti, uno ha completato l’altro. Sempre accanto a lui, in qualsiasi istante della carriera e della vita. L’ombra di Francesco. Subendosi i momenti belli, ma anche quelli brutti, dove il Capitano, sottovoce, si scusa: “scusa Vito, mi conosci…”.
Come il suo amore, l’eterno amore. Perché se non si parla di Roma, allora si parla di Ilary. Se ne è innamorato guardandola e con quel “6 Unica!” l’ha conquistata, diventandone la donna della sua vita. Per Francesco lei è la mente, la ragione, la testa, il cuore e la sua metà.
Fino ad Antonio Cassano, il suo specchio in campo, dove “parlavamo la stessa lingua”.

Verso la fine ci sentiamo solo noi

Sì, questo è ciò che ha reso originale questo racconto. Come scrivevo poc’anzi, Francesco parla quasi sempre, a volte di più, altre di meno, ma la sua voce ci fa compagnia in tutta la narrazione. Tranne che nella fase finale. Perché è quella parte in cui non riesce a dire nulla, è troppo doloroso. E allora parliamo noi, accompagnati dalla canzone di Baglioni.
Con i nostri pianti, con i nostri singhiozzi; con le soffiate di naso e con le lacrime che sgorgano dai nostri occhi, fino a scivolarci lungo il pendio delle guance. Con quella scelta, ha reso protagonisti tutti. Perché “è come se vi conoscessi uno ad uno”.
Un racconto che, per essere visto, non necessita di nessun requisito. Si può essere di qualsiasi squadra o anche non amanti del calcio; si può essere calciatori o padroni di qualsiasi altro mestiere; possiamo essere fanciulli, adolescenti, adulti, padri o nonni; possiamo essere fanciulle, ragazze, donne, mamme o nonne.
Perché si raccontano le emozioni e non il calcio. Perché è una favola e ci siamo dentro anche noi.