Il settimo giorno Dio disse “calcio”. E calcio fu. Ma non specificò mica come giocarci, perché non esiste un solo modo per fare risultato. Fu così che nacque il libero arbitrio: ognuno applicò la tattica che ritenne più consona al proprio modo di essere e di stare in campo. In Italia la tradizione vuole un gioco di stampo prettamente difensivistico, fondato sul concetto di “catenaccio”. Un credo tattico che, nelle sue varianti e in barba all’estetica, ha fruttato delusioni sì, ma talvolta anche titoli mondiali.

IL PESO DELLA TRADIZIONE. Difesa strenua, podismo a centrocampo e attaccanti pronti a sfruttare al meglio le non molte occasioni che un gioco rinunciatario mette a disposizione per segnare. Se è vero che ogni Paese ha il governo che merita e il calcio che ha, il catenaccio e il gioco a uomo hanno da sempre un sapore di Italia: estrema attenzione e distruggere il gioco altrui, marcature rigide, contropiede per prendere sul tempo l’avversaria. Ma negli ultimi decenni perfino nel Belpaese qualcosa è cambiato.

IL VENTO DEL NORD. Negli anni '70, la prima grande rivoluzione nel gioco avviene grazie agli olandesi e al loro calcio totale, espressione di un senso del collettivo che in Italia non c’è, e se c’è non sembra appartenere al calcio, se non per singole e irripetibili esperienze. Lo sconvolgimento della “zona” e del calcio totale con cui l’Ajax prima e la nazionale oranje cambieranno per sempre la concezione degli spazi e dell’impostazione tattica, porta frutti anche nel nostro campionato, sia pure con una lentezza concettuale tutta italiana. In mezzo a infinite resistenze, più di 40 anni fa fioriranno i primi bulbi di piante mai importate in precedenza. Va detto che non esisteva la facilità di oggi nel reperire immagini di calcio internazionale, dunque l’arricchimento tattico si formava su ciò che si poteva appena intuire in Eurovisione o tramite le esperienze continentali di Coppa (spesso poco gratificanti) delle nostre squadre. La prima squadra che in quegli anni fa vedere qualcosa di diverso è la Lazio di Tommaso Maestrelli. Due terzini che oltre a marcare l’avversario sanno spingere sulla fascia proponendo cross invitanti per le punte, un attaccante che pressa il primo portatore di palla avversario. Roba mai vista da queste parti. La presenza di un play-maker arretrato che, molto prima che lo facessero Falcao o Pirlo, detta i tempi del gioco rappresenta un ulteriore inedito.

QUALCUNO CI PROVA ANCHE DA NOI. Dopo lo scudetto della formazione capitolina e dopo la vetrina dei Mondiali di Germania, c’è chi vuole provare a cambiar pelle e a sperimentare un altro modo di essere squadra: nasce con fatica il gioco a zona “all’italiana”, un tentativo molto annacquato ma perlomeno coraggioso di riprodurre il calcio dell’Europa del Nord. Il Napoli di allora è dinamico e spregiudicato quanto basta per incantare anche gli scettici e i tradizionalisti. L’allenatore è il brasiliano Luis Vinicio, soprannominato dai tifosi partenopei “’o lione”. Da anni vive nel nostro Paese, al termine di una carriera di calciatore del tutto lusinghiera (155 reti in 348 partite nella serie A e un titolo di capocannoniere vinto con il L.R. Vicenza nel 1966). In un campionato in cui si segna poco a causa di difese arcigne e concezioni di gioco anche più arcigne, quel Napoli, pur con tutte le inevitabili ingenuità di chi intraprende un percorso nuovo, gioca il calcio più innovativo del nostro campionato. La prima novità tattica è lo spostamento del libero sulla linea dello stopper, come si fa altrove. Il libero non è più l’ultimo difensore centrale prima del portiere e non essendo più a presidio estremo dell’area di rigore, diventa necessario l’utilizzo del fuorigioco. Non tutti in quegli anni hanno capito l’importanza dell’accorgimento tattico, anzi c’è chi ha quasi un moto di repulsa verso la linea di difensori che all’unisono scatta in avanti per mettere gli attaccanti avversari in off-side. Naturalmente la cosa comporta i propri rischi, specie per chi non è abituato ad applicarlo: se si sbagliano i tempi d’uscita dalla propria area, chi dovrebbe essere messo in posizione irregolare si trova direttamente a tu per tu con il portiere avversario.

BARONE LIEDHOLM. Lo sa bene anche Nils Liedholm, che nel 1974/75 siede sulla panchina della Roma. L’altra squadra capitolina vive da anni una condizione di disagio a causa dei fasti della Lazio Campione d’Italia in carica e affida al tecnico svedese (sarà un caso se gli unici allenatori che in quel momento giocano a zona sono stranieri, anche se residenti in Italia da decenni?) le speranze di riscatto. E fanno bene a sperare, i tifosi giallorossi, perché la Roma costruisce una formazione compatta e un gioco convincente proprio seguendo Liedholm (“Oshi Roma ha iocato a ‘ssona” dirà l’allenatore svedese nel suo italiano pulito, mai stentoreo ma dall’inflessione inevitabilmente scandinava). Se quello di Vinicio è un calcio spumeggiante, a tutto campo, simile per alcuni versi al modello zemaniano per atteggiamento mentale e per copertura degli spazi e al modello sacchiano in quanto a concezione del pressing, la Roma di Liedholm è una squadra molto più prudente, soprattutto in difesa, ma moderna a centrocampo, il punto nevralgico del rettangolo di gioco in cui le partite si vincono o si perdono. La Roma di quegli anni sarà dunque ricordata per la sua “ragnatela”. Un sistema di possesso e di circolazione palla che prenderà alla sprovvista anche compagini in quel momento più dotate, almeno sotto il profilo tecnico. I vari Cordova, De Sisti, Morini, Negrisolo, perdono di rado il pallone facendolo girare dall'uno all'altro, in modo da costringere l’avversaria, spesso vittima del lancio per le punte o dei terzini incursori, a girare a vuoto. Ma Liedholm –anni di apprendistato al Milan, alla corte di Nereo Rocco- sa bene che in Italia si vince soprattutto subendo poche reti, dunque decide di non rischiare troppo, come invece sta facendo Luis Vinicio. In difesa la Roma marca ancora a uomo e i risultati, in un campionato come il nostro, daranno ragione allo svedese.

VINCE COMUNQUE LA JUVE. Nel 1975, ideale anno zero della zona in Serie A, il Napoli avrà il miglior attacco (50 reti all’attivo) e il secondo posto nella classifica finale, ma la Roma avrà in assoluto la miglior difesa (soltanto 15 reti al passivo e una terza posizione che neanche il tifoso più ottimista avrebbe pronosticato alla prima giornata). Lo scudetto lo vincerà la Juventus tradizionalista del neoallenatore Carlo Parola. La squadra è forte dell’esperienza di giocatori come Capello, Bettega e dell’immortale Altafini, ma anche dell’innesto di un giovane terzino, ruvido ma efficace, e di un libero che per saggezza tattica e caratteriale sembra nato trentenne e che invece ne ha poco più di 20: i due neofiti si chiamano Claudio Gentile e Gaetano Scirea. Intorno alla porta di Zoff si stanno dunque ponendo le basi non soltanto della Juventus vincitrice in Italia a e in Europa, ma anche della futura Nazionale campione del mondo. Non altrettanto bene andrà alla Lazio: dopo un ottimo inizio e un girone d’andata chiuso a ridosso dalla capolista Juventus, un evento nefasto turba in modo irreparabile l’ambiente. Tommaso Maestrelli accusa i primi sintomi della malattia che gli sarà fatale due anni più tardi ed è costretto a lasciare i suoi. La squadra è sconvolta e i risultati in campo ne risentono. La scomparsa di un allenatore del carisma, della pacatezza e della tenacia di Maestrelli ridisegnerà negli anni a venire la storia e le ambizioni della formazione romana. E di fronte a sciagure di quel genere non c’è marcatura che tenga. Né a zona né a uomo.

Diego Mariottini

Foto: Casa editrice Airone