Ultimamente nel calcio mondiale sono apparsi diversi giocatori dalla classe cristallina e dal futuro ben più che roseo, e che si stanno prendendo la scena internazionale. Il più famoso, probabilmente, è Kylian Mbappé.
Il talento di Bondy, classe 1998, ha mostrato ormai in ogni competizione il suo talento, sino ad arrivare alla finale del mondiale di Russia, che lo ha consacrato come miglior giovane della competizione. C'è chi non è mai riuscito ad arrivare a tanto neppure con una lunga carriera alle spalle, e invece lui è lì, che siede tra i grandi del calcio attuale senza neppure avere ancora compiuto vent'anni.
Un altro esempio può ricercarsi in Marcus Rashford, giocatore dello United nato proprio a Manchester, e che sta dimostrando di essere un giocatore dal grande potenziale. E che dire del maiorchino Marco Asensio, ormai realtà del Real Madrid e della nazionale spagnola? Tutti grandi giocatori, eppure non certo trentenni, o dei quali si può dire che siano arrivati al massimo del loro talento. 

E in Italia? Citando Dante Alighieri, "or incomincian le dolenti note".
Nel nostro paese invece tiene banco la vicenda nazionale, certamente una delle più deboli dell'intera storia azzurra, e che trova un giudizio pressochè unanime: serve rinnovare. Ma si sa, nell'Italia calcistica si mira sempre al cambiare tutto senza cambiare niente, una affermazione che certamente ha il carattere negativo della demagogia, ma siamo sicuri non sia fondata?

Negli ultimi dieci anni, i talenti italiani si sono drasticamente ridotti di numero, e il ricordo delle nazionali giovanili che negli anni '90 hanno dominato la scena europea non fa altro che accentuare questo dato.
I tempi dei Pirlo, dei Totti, degli Inzaghi, dei Del Piero, dei Toldo e dei Buffon, sono ormai uno sbiadito ricordo, il rimembrare i tempi in cui l'Italia poteva sfornare così tanti talenti da poter contare su tre portieri di livello e una eccellente panchina ha lo stesso effetto del guardare un dagherrotipo dell'800.
Ed è proprio per il dolore dovuto all'impoverimento qualitativo della Nazionale, che faceva tremare ogni avversaria di paura, che sono immediatamente scattati i processi. E come in ogni tribunale popolare, le prove contano sino a un certo punto, quel che conta è trovare un accusato e farlo condannare.

Ma funziona veramente così? Davvero le soluzioni più immediate, o più integraliste, sono le migliori? Vediamo di analizzare freddamente ogni possibile accusa e/o soluzione.

La prima, la più semplice, è che non ci sono talenti per via del fatto che, questa volta, la mano perdente per quanto riguarda i giovani la abbiamo avuta noi, e diciamolo, anche l'Olanda. Non ci sarebbe niente di strano o di anormale: la storia è fatta di cicli che si aprono o si chiudono, anche con tutta la buona volontà delle parti in causa. Stando a questo ragionamento, purtroppo non c'è molto che si possa fare se non continuare a sfornare ragazzi e incrociare le dita. Certamente un modo alquanto passivo di affrontare il problema, ma d'altronde, è una possibilità che non va esclusa, e sarebbe se possibile anche più desolante: in questi ultimi dieci anni, non si è stati in grado di sfornare una nazionale competitiva perchè letteralmente è mancata la materia prima.

Un'altra accusa che viene mossa, la più comune, è della presenza di troppi stranieri nel campionato italiano, ed è su questa che ci sarebbe da discutere. Certo, di stranieri ce ne sono parecchi, questo è indubbio, ma in che modo questo può essere, razionalmente, considerato un ostacolo? Il vecchio adagio del "rubano il posto ai giovani italiani" è un populismo che possiamo lasciare alla politica: gli stranieri nel calcio italiano esistevano anche prima. Li si trovava negli anni '90, nell'epoca del massimo splendore dell'Under 21, nel 2002, dove potemmo schierare forse la migliore Italia della storia, per non parlare del 2006, data dell'ultimo successo della nazionale. Eppure questo frenò gli allenatori dallo schierare giocatori italiani? Certo che no. Negli anni '90 i giovani calciatori avevano spazi per giocare? Certamente. E allora cosa è successo? Additare l'eccesso di stranieri può rivelarsi uno specchietto per le allodole, il classico dito dietro al quale si cerca inutilmente di nascondersi, con il rischio, proprio per i giovani calciatori, di sentirsi in un qualche modo intoccabili, ed in questo modo azzerare la competitività all'interno della squadra, altro elemento fondamentale per spronarli a fare sempre meglio. Bloccare del tutto l'accesso ai giocatori stranieri sarebbe, tra l'altro, contrario alla libera circolazione delle persone stabilita dal diritto dell'Unione Europea. Chi fa questo discorso poi, dimentica il fatto che una squadra di calcio non mira, non primariamente almeno, a fornire giocatori per la sua nazionale, come una moglie fascista doveva fare per fornire futuri soldati per il bene della patria. Le società di calcio devono perseguire i loro obiettivi primari, che sono il successo della squadra con i mezzi leciti che il mondo a cui appartengono consente loro di fare, al netto delle difficoltà e della concorrenza. Lo fanno con qualche italiano in squadra? Tanto meglio, ma non è la loro priorità. Quando le squadre calcistiche italiane saranno alle dirette dipendenze del Ministero dell'Interno, allora si potranno fare discorsi di questo tipo, ma fino ad allora no.

Di chi è la colpa allora? Chi dobbiamo mettere alla gogna mediatica? 

Paradossalmente, si potrebbero mettere alla gogna proprio i media stessi. La scarsità di talenti degli ultimi anni ha portato tutti gli addetti ai lavori a iperpubblicizzare ogni giocatore giovane italiano che aveva la fortuna di emergere, fosse anche per un paio di partite, dal settore giovanile. Forse con queste manovre, coi titoloni in prima pagina, con gli editoriali pregni di speranza, si cercava, e si cerca, di esorcizzare la paura, di poter finalmente urlare "abbiamo il nuovo fenomeno italiano!". Sfortunatamente, è il modo più sbagliato di dare una mano, anzi, è forse il più deleterio. La sovraesposizione mediatica nei confronti di quelli che sono, a tutti gli effetti, dei ragazzini, crea esattamente l'effetto opposto, cioè di caricarli di eccessive aspettative e di farli apparire, agli occhi dell'opinione pubblica, più forti di quello che sono. Quando poi si aggiunge anche la componente "procuratore", allora il quadro, o per meglio dire la crosta, è completo. Nelle mani di procuratori senza scrupoli, che guardano solo al proprio guadagno personale ignorando i bisogni del ragazzo, i giovani calciatori non diventano delle persone, ma delle macchine da soldi bipedi di carne. Allettati da false promesse e da adulazioni degne del gatto e della volpe collodiane, i ragazzi credono di essere già maturi, già forti, e in questo modo arrestano il loro processo di crescita, cullandosi sulla loro popolarità e diventando, proprio come in Pinocchio nel Paese dei Balocchi, degli asini. Il calcio moderno, sfortunatamente, ha tanti Mangiafuoco e pochi Geppetto.

Stampa e procuratori, pertanto, si sostituiscono all'allenatore ed alla società nella formazione dei ragazzi, fornendo loro alibi, facendo passare gesti da condannare come marachelle o goliardate, oppure dando loro addosso ferocemente alla prima partita sbagliata, col risultato di svilire il calciatore, o, concetto ancora poco chiaro nel panorama del sistema calcio italiano, di giudicare la sua cattiva prestazione come lo si fa con un giocatore di esperienza. E così, come viene creato dal nulla, il ragazzo ritorna nel nulla, sprofonda nella mediocrità, e di conseguenza non diviene più utile in ottica nazionale. I tifosi, con i loro fischi e mugugni allo stadio, non aiutano ugualmente, facendo perdere la concentrazione a quello che dovrebbe essere, e che potrebbe diventare, un loro beniamino.

Gli altri colpevoli vanno ricercati tra gli allenatori e l'atteggiamento negativo delle società di calcio moderne. Bisogna avere il coraggio di ammetterlo: nessuno ha il coraggio di schierare i giocatori del proprio vivaio, eccezion fatta per il Milan di questi ultimi anni. Nessuno chiede di inserire in prima squadra tutta la rosa dei vari sostrati dei settori giovanili, ma se esistono dei giocatori che paiono chiaramente al di sopra della media, perchè non avere il coraggio di schierarli? Perchè si preferiscono invece giocatori dalla già conclamata mediocrità, e che certamente non possono risollevare le sorti di una partita e della squadra? La risposta è, purtroppo semplicissima: per la paura. Una squadra di bassa classifica non lo fa perché deve mirare a salvarsi, una grande squadra perchè vuole avere l'uovo oggi, e la squadra di metà classifica perchè spesso non credono abbastanza nella gallina domani. Il risultato è che i settori giovanili si tramutano in veri e propri serbatoi di plusvalenze, e per quanto, in un'ottica societaria accorta, questo processo sia spesso inevitabile per far quadrare i conti, dall'altra parte di fatto manda un messaggio terribile ai giovani: siete carne da macello. Che futuro può immaginare per sé un seppur promettente giocatore di 16, 17 o 18 anni? Perchè impegnarsi, se tanto finirà nelle categorie inferiori come la serie B?

Già, la serie B, altra pseudo-soluzione trovata dai club per far crescere i propri talenti. I giocatori, per poter eccellere, devono giocare con dei giocatori già di indiscusso talento, allenarsi con loro, apprendere da loro. La Serie B, al contrario, non è un campionato che può stimolare un talento, che anzi, finisce con il conformarsi alla mediocrità della serie cadetta, sacrificando la classe per il contenimento, le discese in attacco per la difesa a oltranza, il guizzo del potenziale campione per unirsi agli altri giocatori in campo per difendere. E tutto questo solo se effettivamente arriveranno a calcare il rettangolo verde: invischiate nella lotta per la salvezza, molte squadre rinunciano a schierare i giocatori dati loro in prestito per crescere e giocare, preferendo giocatori di esperienza per raggiungere l'obiettivo stagionale. Condivisibile, ma allora perchè promettere alla squadra titolare del cartellino che il loro giovane giocherà e sarà in ottime mani?

In quest'ottica, le squadre B rappresentavano un eccellente compromesso: fare crescere i ragazzi e farli giocare sotto l'occhio vigile della società ed allenandosi con i membri della squadra titolare per apprendere sempre più nozioni, situazioni di gioco differenti, grazie ai consigli dei veterani di esperienza. Ma a parte la Juventus, ormai matura economicamente, le altre squadre non hanno seguito lo stesso esempio, per varie problematiche interne, ma rinviando la loro istituzione al prossimo anno. Non resta che incrociare le dita.

Insomma, per come è strutturata al momento la visione del calcio in Italia, pare non esserci speranza. Senza il coraggio di schierare dei ragazzi giovani, in un ambiente neutro e scevro di qualunque condizionamento, senza fretta e senza sovraespozione mediatica, il calcio italiano, e di conseguenza la nostra nazionale, non migliorerà di sicuro. Mbappè, nel nostro paese, sarebbe stato considerato un bel prospetto, e poi mandato in una delle 22 squadre che compongono la B. Anzi no, delle 19. Forse, in fondo, ce lo meritiamo di stare come stiamo.