La mia generazione ha potuto apprezzare pienamente il calcio italiano degli anni ’80 dello scorso secolo e, quindi, i nostri occhi si sono riempiti delle gesta dei calciatori più forti a livello mondiale, in quanto la gran parte di costoro militava nel nostro campionato.

Per rendere l’idea con l’attualità e facendo una digressione in ambito cestistico, l’Italia calcistica di quegli anni era una sorta di NBA, in grado di attrarre talenti da ogni parte del Mondo. In sostanza, solo se giocavi in Italia potevi essere considerato un calciatore di livello assoluto. Così in Serie A approdarono campioni da ogni latitudine, che si unirono a quelli nostrani, i quali, nel 1982, vinsero il titolo mondiale, con partite che ancora oggi sono rimaste nell’immaginario collettivo nazionale (come la mitica vittoria per 3 a 2 al Sarria di Barcellona contro una delle squadre brasiliane più forti di sempre).

Per un amante del calcio, andare al Comunale di Torino negli anni ‘80 era un’autentica goduria, a prescindere dal tifo di appartenenza. Ai campioni bianconeri stranieri (Platini e Boniek) si contrapponevano squadre che potevano vantare nel loro organico giocatori come Falcao e Cerezo (Roma), Zico (Udinese), Junior (Torino), Socrates (Fiorentina); Rummenigge (Inter) e senza considerare l’avvento dal 1987 del Milan di Sacchi con calciatori stellari come Van Basten e Gullit.

L’elenco dei calciatori top potrebbe continuare ma, inevitabilmente, sorge nel contempo un’amara riflessione, ovvero ricordare quell’epoca provoca un certo imbarazzo per l’abissale gap tecnico tra la Serie A degli anni ’80 e quella attuale.

Ma, nonostante la concorrenza di livello assoluto, c’era un calciatore che si issava al di sopra di tutti ed il suo nome era Diego Armando Maradona, ovvero il Calcio.

Per uno juventino DOCG come lo scrivente, evocare Maradona significa, mio malgrado, inchinarsi al più grande genio del calcio di tutti i tempi. Eppure nella mia Juve di quegli anni militavano fenomeni nostrani irripetibili, che avevano concorso in modo determinante alla conquista del Mundial ’82, nonché le Roy Michel Platini (senza dimenticare il “bello di notte” Zibì Boniek). Insomma una confraternita di fuoriclasse assoluti.
Ciononostante, dovevo ammettere che quando vedevo giocare Maradona – come mi capitò (dal vivo) in occasione di un Juventus/Napoli del 9 novembre 1986, quando il Napoli vinse a Torino per 3 a 1, infrangendo un tabù che durava da 32 anni – mi brillavano gli occhi perché l’argentino era di un altro pianeta.
Ah, quanto avrei desiderato vederlo giocare nella mia Juve, in continuità spirituale con il suo connazionale Omar Sivori, che onorò sempre la maglia bianconera, da autentico gaucho delle Pampas.

Ma, riflettendo, Maradona a Napoli e al Napoli ha trovato il suo habitat naturale, perché esprimeva un calcio passionale e sanguigno che solo l’ambiente partenopeo poteva esaltare, comprendere ed apprezzare, perdonandone gli eccessi che alla Juve avrebbero sicuramente censurato, senza appello.
E’ del tutto superfluo ricordare in questa sede le gesta calcistiche di questa icona argentina. Basta rivedere i filmati sul web per farsi un’idea e comprendere chi era e cosa è stato Maradona per il calcio Mondiale: l’unico Dio pagano del Pallone, riconosciuto tale in ogni emisfero calcistico terrestre.

Forse, se dovessi formulare un paragone con un altro sportivo di pari fama, l’unico che mi viene in mente sarebbe nell’ambito del pugilato.
Mi riferisco a Muhammad Alì (Cassius Clay prima della conversione all’Islam). Credo che Alì possa essere considerato il più grande pugile di tutti i tempi, ma – come Maradona – la sua immensa grandezza non fu da attribuirsi solo nei risultati ottenuti ma, soprattutto, nel modo di interpretare lo sport che praticava e nella fortissima personalità che ne contraddistinse tutta la carriera.

Da una parte, Maradona interpretava il calcio in modo geniale, con giocate funamboliche, dribbling ubriacanti, reti pazzesche da ogni posizione in campo. In sostanza, Maradona brillava di luce propria e poteva essere inserito in qualsiasi contesto calcistico – napoletano come argentino – ma il suo spartito non variava mai. E il giorno in cui pensavi di aver già visto tutto il suo repertorio, l’argentino ti stupiva con una nuova invenzione.

Identicamente, Muhammad Alì praticava la nobile arte del pugilato, completamente fuori dagli schemi, in modo incredibile per un peso massimo. Vederlo sul ring era uno spettacolo di armoniosa bellezza: continuo movimento di gambe, agilità e rapidità di esecuzione. Per Lui fu coniata una delle definizioni più pertinenti “Una farfalla che punge come un’ape”, perché coniugava la contemporanea leggerezza dei movimenti con la precisione micidiale con cui piazzava i colpi.

Entrambi, fuori rispettivamente dal quadrato e dal rettangolo di gioco, si sono distinti per scelte non semplici da perseguire.

Dapprima Alì si convertì all’Islam, assumendo appunto il nome di Muhammad Alì, in luogo di Cassius Clay e ciò pur nella consapevolezza che la decisione avrebbe potuto costargli molto cara in termini di carriera. Poi la rinuncia al titolo mondiale dei Pesi Massimi, a fronte del gran rifiuto di indossare la divisa dell’esercito statunitense, impegnato nella guerra in Vietnam. Nel 1996, apparve, come ultimo tedoforo, alle Olimpiadi di Atlanta 1996, ormai in preda al morbo di Parkinson. In tale occasione, gli fu anche riconsegnata la medaglia d’oro vinta a Roma nelle Olimpiadi del 1960, poiché la storia (o la leggenda?) narra che avesse gettato l’originale in un fiume come plateale gesto di protesta verso il suo Paese per la perdurante discriminazione razziale che, al suo ritorno in patria dopo le imprese di Roma, portò un ristoratore a rifiutarsi di servirlo appunto perché nero.

Per contro, Maradona incontrò la dipendenza dalla cocaina, intrecciò sempre difficili vicende sentimentali, venne strumentalizzato per frequentazioni con la camorra, fu accusato di evasione fiscale. Poi, una volta ritiratosi, ebbe modo di allacciare discutibili (e pubblici) rapporti con il dittatore cubano Fidel Castro e quello venezuelano Chavez. Evidentemente, el Pibe de Oroche nel frattempo si era tatuato la foto di Che Guevara sull’avambraccio - non aveva mai dimenticato le sue umili origini, per cui si contrapponeva al capitalismo, prima di tutto statunitense. Giuste o sbagliate che fossero, si trattò comunque di scelte non “comode”, effetto di una vita spericolata, quasi mai al limite.

Forse, Maradona, fuori dai campi di calcio, perse gran parte del carisma che lo aveva accompagnato negli anni da calciatore. Il suo fisico subì un crollo spaventoso, sino a diventare quasi una macchietta, perché ricordava un barilotto. La dipendenza dalla cocaina fu sostituita dalla dipendenza per l’alcool. Il suo sguardo inevitabilmente si spense, ma non è mai tramontato il suo mito.

Alì, all’apice della sua carriera, pubblicò un’autobiografia, dal titolo che non ammetteva repliche “Io sono il più grande”, ma non c’era bisogno che fosse Lui a ricordarlo, perché tutto il mondo della boxe internazionale lo riconosceva come tale.

Per Maradona, esiste invece una biografia “Il Calcio sono io” scritta da Alexandre Juillard ed edita nel 2011 ma, anche in questo caso, come per Alì, il titolo del libro corrispondeva pienamente al sentiment provato da tutta la comunità calcistica internazionale, perché Maradona è stato semplicemente il più grande.