Quando ero bambino in casa non si seguiva tanto il calcio e, venendo da una provincia d’Italia piuttosto isolata, non avevamo nemmeno squadre importanti vicino a noi. Di conseguenza in casa non si parlava di pallone: mio padre era appassionato di ciclismo, i miei zii di motori. 
Credo di aver scoperto il calcio in prima elementare, quando i miei compagni di classe mi chiesero: “Per quale squadra fai il tifo?”. E io, sorpreso: “Non lo so, chiedo a casa!”. La sera, appena mio padre rientrò a casa dal lavoro, gli chiesi curioso: “Che squadra tifiamo noi?” Mi rispose con un certo disinteresse: “Boh… La Juve…” e la sensazione è che avrebbe potuto dirmi “Milan”, “Inter", “Lazio” o qualsiasi altra squadra: quando hai sette anni, quello che ti dice tuo padre è legge. Questo episodio ha segnato l’inizio della mia passione per la Juve, passione che ho poi trasmesso ai miei figli, che oggi hanno sette e cinque anni.

Aldilà della fede calcistica però, il calcio che ho amato di più fin da ragazzino era quello inglese. Non chiedermi le ragioni tecniche, il football (guai a chiamarlo soccer!) mi è sempre sembrato più bello, veloce, fisico… Primordiale! 
Puoi solo immaginare il mio entusiasmo quando, qualche anno fa, mi sono trasferito a vivere a Londra con tutta la mia famiglia, moglie e figli compresi. Pensavo “Che bello! Ci scegliamo una squadra londinese e possiamo andare allo stadio a vederla almeno due volte al mese”.
Già, ma quale squadra scegliere? Londra conta ad oggi 17 squadre professionistiche: 6 militano in Premier League, la nostra “Serie A” (in ordine alfabetico Arsenal, Chelsea, Crystal Palace, Fulham, Tottenham, West Ham United) e 3 in Championship, la nostra “Serie B” (Brentford, Millwall e Queens Park Rangers).

Vivendo qui a Londra ho però compreso quanto poco ne capissi di calcio inglese, di quello londinese in particolare. Probabilmente è quasi impossibile capirlo vedendolo “da fuori”, lontano da questo meteo malinconico e piovoso, lontano dall’odore di birra, di pesce fritto e aceto che da oltre cent’anni (e nonostante i capitali russi, malesiani e cinesi) continua ad invadere gli spalti degli stadi inglesi.
Paradossalmente, il calcio a Londra c’entra poco col calcio in senso stretto e molto con la storia, i contrasti sociali, religiosi e la difesa del territorio. 
Per fare un esempio, a Londra nel 1926 fu indetto uno sciopero dei lavoratori a cui aderirono gli operai degli Hammers (i tifosi del West Ham), mentre i Dockers si rifiutarono di “incrociare le braccia” e si presentarono al lavoro. Questo episodio scatenò una violenta rivalità tra West Ham United e Millwall che resiste tutt’oggi, più simile al conflitto israelo-palestinese che ad un nostro Derby della Madonnina. A Londra la squadra non si sceglie, è il territorio (vale a dire la parte di Londra in cui vivi) a determinare il  tuo tifo. Il motto qui è Always support your local Football Team, “sostieni sempre la squadra più vicina a te”. Chi sceglie la squadra di un altro distretto, soprattutto se si tratta di una squadra forte e blasonata, è etichettato come Trophy Hunter, letteralmente “cacciatore di trofei”, praticamente un infame senza onore. 

Io vivo a Notting Hill, quartiere reso celebre dal film del 1999 con Hugh Grant e Julia Roberts, che si trova a West London e più precisamente nel Royal Borough of Kensington and Chelsea. Tecnicamente parlando sarei nel distretto di Chelsea, che però gioca a Stamford Bridge, nel Borough of Hammersmith e Fulham… So che sembra un pò complicato, ma Londra è complicata, tanto vale che ti ci abitui. 
Fin da subito mi sono rifiutato di tifare Chelsea, nonostante i tanti italiani che ci hanno militato e che continuano ad essere protagonisti oggi nelle file dei Blues. Pensiamo al Coach Maurizio Sarri, al suo secondo Gianfranco Zola, al nazionale Jorginho e all’ex Toro Davide Zappacosta
Perché questa mia avversione al Chelsea? Prima di tutto volevo evitare una squadra che avrebbe potuto affrontare la Juventus in Europa (nonostante in questo campionato il Chelsea non partecipi alla Champions League), ma le mie ragioni erano più profonde e riguardavano l’esempio che volevo trasmettere ai miei figli.
Da quando Francesco (7 anni) e Federico (5) sono nati hanno sempre e solo visto vincere la Juventus (in Italia, tristemente). Dopo l’arrivo di CR7 poi, ho visto tanti suoi compagni di classe “cambiare sponda” per passare alla Juventus, inseguendo la squadra più vincente e con il campione più titolato. Non rappresenta forse lo specchio della società contemporanea, dove le logiche di convenienza hanno spesso la meglio sugli ideali? 

Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” recita il motto della Juventus. Non potrei essere più in disaccordo.

In ogni ambito, soprattutto nel mondo del lavoro, ci riempiamo così tanto la bocca di termini come “leadership”, “leader”, “vincente”, che ci siamo dimenticati l’epica della sconfitta, il romanticismo di chi coltiva una passione illogica, sconveniente, la profondità di chi trova un senso nell’essere, allo stadio, più che nell’avere, titoli da sfoggiare.
Per questi motivi io tifo Queens Park Rangers che con il suo Loftus Road Stadium, situato nel quartiere di Shepherds Bush, è la squadra più vicina a dove vivo (soltanto due fermate di metro sulla Central Line). È la squadra più forte? No, attualmente milita in Championship (Serie B inglese). È la squadra più titolata? No, non ha mai vinto un titolo in prima divisione, pur avendo sfiorato il successo nella mitica stagione 75/76.

Erano gli anni in cui la numero 10 degli Hoops stava sulle spalle di Stan Bowles, un campione che interpretava il calcio con folle spensieratezza, anteponendo il divertimento del proprio pubblico alla pertinenza di una giocata. Chi era Stan Bowles? Un Maverick per il quale la vita era fatta di opinabili priorità: scommettere (e perdere), prendere a pallonate i trofei degli altri e incantare il suo pubblico.
9 marzo del 1973, si gioca l’ultima di campionato di Seconda Divisione, un QPR neo promosso in prima divisione affronta fuori casa il Sunderland che si è appena aggiudicato l’FA CUP ai danni del favorito Manchester United. I dirigenti del Sunderland decidono di esporre a bordo campo, sotto la tribuna, il trofeo appena vinto mentre i giocatori del QPR entrano per il riscaldamento. Stan la butta lì ai suoi: “Scommettiamo che da qua colpisco e mando a terra la loro amata coppa?” Si raccolgono puntate. Bowles col suo delicato piede mancino fa quello che vuole… E la coppa vola a terra. Probabilmente una delle rare scommesse vinte da “Stan the Man”, come veniva chiamato. Il pubblico del QPR impazzisce, i tifosi del Sunderland tentano un’invasione di campo per farla pagare al numero 10 con la maglia a strisce bianche e blu orizzontali. La partita comincia in clamoroso ritardo e Stan, per simpatia, ne rifila due ai padroni di casa decretando la vittoria dei suoi. 

Meravigliose storie di un calcio che non c’è più.
Mio figlio Francesco i primi tempi mi chiedeva: “Perché con tutte le squadre che ci sono a Londra tifiamo una squadra che non vince mai?” - soprattutto quando a scuola i suoi compagni, tifosi delle altre squadre, lo prendevano in giro -. Non ho mai risposto a questa domanda, preferendo che le sue risposte le trovasse da solo. Sono bastati pochi mesi prima che con gli occhi pieni di speranza mi dicesse: “Ti immagini se un giorno il QPR vince il titolo? Sarebbe la vittoria di tutta la nostra Londra!”
“La nostra Londra”, mi fa sorridere questa espressione perché rappresenta la complessità di questa città: una città-stato che di inglese ha tutto e non ha niente, una megalopoli che oltre all’arroganza delle nuove costruzioni, all’ampollosità della sua monarchia che resiste, nonostante gli scandali, e ai fasti della mondanità, trova nelle sottoculture il proprio cuore pulsante e la propria anima più autentica.

Ieri, martedì 27 novembre, c'era Juventus vs Valencia. Un match che poteva confermare il primo posto dei Bianconeri nel girone di Champions. Ma c’era anche Rotherham United - Queens Park Rangers, che avrebbe potuto avvicinare gli Hoops alla zona playoff.
La Juve ha vinto, che novità, perché per loro è l’unica cosa che conta… Io sono andato a Shepherds Bush a guardare il QPR, in un pub che puzzava di quell’emozionante genuinità che il calcio di blasone non mi dona più. 
E’ finita 2-2, con un pareggio raggiunto in extremis grazie ad un goal di Freeman in tuffo di testa, oltre il novantesimo. Quattro goal, tante emozioni. 

Quelle sì, per me, sono l’unica cosa che conta.