Milano, estrema periferia sud ovest, Quartiere degli Olmi, edificato tra la metà degli anni '60 e il 1970, collegato all'epoca alla vicina zona di Baggio, da un lungo viale che correva in mezzo a prati incolti.
Sono cresciuto in questa zona popolare di Milano, con mio fratello, di due anni più grande e tanti piccoli amici, conosciuti per strada, giocando in cortile o a scuola.
La mattina passavano dei pullman per portarci al vicino oratorio di Baggio, dove era stata allestita una scuola provvisoria. Il Quartiere ne era ancora sprovvisto, mancavano anche negozi e servizi, strutture che sarebbero arrivate in seguito. Il catechismo lo facevamo in un piccolo capannone di ferro, edificato in centro ai palazzoni, adibito anche a chiesa. Ricordo che i catechisti ci facevano sedere su delle seggiole di legno a circolo, gruppetti di 6/8 dove al centro c’era un tavolino tondo con delle candele, alla luce delle quali leggevamo e ascoltavamo i chatechisti.
Pare che Don Luigi, l’anziano sacerdote, dormisse lì, oltre un altare posticcio semicoperto da un tendone blu scuro, dietro il quale si intravedeva un letto. Era un posto gelido, senza riscaldamento. In estate invece, infuocato come un forno. La chiesa parrocchiale venne edificata parecchi anni dopo.
D’estate con gli amici giocavamo nei vicini campi incolti, che dopo il nostro passaggio diventavano spelacchiati e usurati, creando delle zone piane dove rincorrere un pallone. Poi arrivava l’inverno, dove la natura si riprendeva i suoi spazi con erba e sterpaglie, che la stagione successiva prevvedavamo con il nostro calpestio a risistemare. Insomma ci bastava poco, non c’era molto, ma era sufficiente per divertirsi.
Avevamo un pallone di plastica, uno di quelli che una volta colpiti aveva una traiettoria incerta, ma bastava per organizzare partite interminabili. Due libri, un giubbotto e un cappellino per terra e le porte erano fatte, ma mancava sempre il portiere, nessuno voleva giocare in porta, così facevamo a giro. A turno si stava in porta e al primo gol subito si dava il cambio. Io facevo il furbo, appena potevo, spalancavo la porta in modo da poter tornare a giocare per fare un gol.
Lungo uno dei prati da noi frequentati c’erano due enormi alberi, due Olmi, da qui il nome “Quartiere degli olmi” a fianco un fuimiciattolo, uno di quelli usati dai contadini di zona che con delle piccole dighe, irrigavano i loro campi. Quest’acqua era una calamita per il nostro pallone, che ci finiva spesso dentro. Con dei bastoni tentavamo il recupero, con fortune alterne, a volte dopo pochi metri a volte dopo molte decine di metri.
Un Natale mio padre ci regalò un pallone di cuoio, per la felicità mia e di mio fratello. Mai visto niente del genere, era strano, color cuoio, come quelli che si vedono nei vecchi filmati del calcio di una volta. Avevo già visto quelli a scacchi bianchi e neri, chissà, forse era più economico. Poi aveva un numero, il 3, pare fosse per ragazzi, con un peso è una circonferenza inferiori, quello regolamentare portava il numero 5. Comunque era bellissimo.
La prima volta che giocammo con quel pallone, ci esaltammo, sembrava di essere dei campioni, anche se era molto più duro e pesante di quello di plastica. Poi immancabilmente finiva in acqua, dentro il fosso. Una volta recuperato pesava il doppio e ai primi calci spruzzava acqua da tutte le cuciture, a causa del liquido che si infiltrava tra camera d’aria e rivestimento esterno. Un sasso! Ma comunque un pallone di cuoio che in pochi avevano.
Intorno al 1970 dovemmo trasferisci per giocare altrove. Arrivarono delle ruspe a spianare i nostri campetti e di lì a poco, impensabile, un campo di calcio, vero e proprio. Una piccola struttura accanto, un capanno come spogliatoio e poco altro. Poi a seguire righe bianche a terra, le porte, bianchissime, con i pali quadrati, che oggi non si usano più e le reti. Il campo era in terra battuta, molto in uso tanti anni fa, uno di quelli che se scivolavi ti grattugiava a morte le ginocchia. Bellissimo!
Che grande utilità le reti nelle porte di calcio, per noi all’epoca non avevano l’uso primario di certificare che la palle fosse entrata in porta, ma più semplicemente se segnavi c’era un premio. Recuperare la palla immediatamente in fondo alla rete, senza rincorrerla per decine e decine di metri nei campi adiacenti.
Insomma, il Quartiere aveva un suo campo di calcio. Ma l’illusione durò poco. Era di una società sportiva nascente, Aics Olmi, infatti di lì a poco venne recintato.
Iniziarono le selezioni per far parte di questa nuovo gruppo sportivo. Avremmo potuto proporci anche noi per un provino, ed entrare a farne parte, ma quanti c’è l’avrebbero fatta? Eravamo sempre stati un gruppo unito di amici, questa cosa ci avrebbe diviso? Non avemmo il tempo di rispondere a questa domanda. Nel giro di poco venne organizzata una partita di calcio per inaugurare il nuovo centro, alla quale sarebbe stato presente il Sindaco di Milano, Aldo Aniasi. Un’occasione imperdibile, ci proponemmo per sfidare i biancorossi dell’Aics Olmi. Ci demmo un nome gli Harlem Boys (chissà poi perché ) e giorni dopo il nostro nome era sulle locandine esposte in zona, per pubblicizzare l’evento, rigorosamente scritte a mano.
Il papà di qualcuno di noi si propose come allenatore. Quasi perfetti, insomma.
Eravamo in tredici. Undici più il portiere di riserva, poi c'ero io. Ero il più piccolo di età, gli altri erano più grandi, grossi, e più abili, io il tappabuchi. Ma andava bene così.
Quando realizzammo quello che stavamo per fare, ci rendemmo conto che non avevamo le magliette. Dietro le recinzioni del nuovo campo sportivo, vedevamo i nostri coetanei selezionati dalla società sportiva, con le loro maglie, tutte uguali, e non potevamo giocare la partita vestiti in qualche modo. Quindi trovammo la soluzione. Nella vicina Baggio c’era un negozietto “Cacci Pesca e Sport” così si chiamava e al costo di 2.500 delle vecchie lire (circa un euro e 20 di oggi), si poteva comprare una maglietta da gioco con il numero ricamato. Erano di un cotone pesante, una volta lavate diventavano la metà e dure come il cartone. Bellissime!
Quindi ognuno recuperó 2.500 lire e via a piedi verso il negozio (n.d.r. all’epoca un quotidiano, il tram o un caffè costavano 70 lire. Il pane 230 lire al chilo).
Una volta entrati in negozio vedemmo le maglie erano arancioni (tipo nazionale Olandese) con i numeri neri. Iniziammo gli acquisti. Chi prese la maglia con il 3, chi il 10. Insomma in base al ruolo, con le vecchie numerazioni che non prevedevano i numeri di oggi. Quando toccò a mio fratello, l’ala destra, il 7, frugó nelle tasche a lungo, a lungo, poi diventò bianco in viso e si guardò attorno con gli occhi nel vuoto. Aveva perso i soldi. Eppure aveva usato il consiglio del nonno: “Se infili in tasca qualcosa di importante, metti sopra un fazzoletto, così correndo o giocando sarà più difficile che ti cada” Non andò così, forse bastò soffiarsi il naso.
L’accaduto non era cosa da poco. Tutt’altro. Mio fratello avrebbe dovuto prima aspettare la sera, il rientro dei miei dal lavoro, contare sulla loro comprensione e poi sperare di riavere i soldi per la maglia. Tutto si stava complicando. Ritornammo al quartiere, mio fratello era triste, io di più.
Poi nel pomeriggio i piccoli amici fecero una collletta, e comprarono la maglia a mio fratello, facendogli una imprevedibile e toccante sorpresa.
Era così, se uno di noi aveva 150 lire, non si nascondeva con il ghiacciolo in mano, ma il ghiacciolo c’era per tutti. Eravamo complici in tutto e per tutto.
Io, il tredicesimo uomo, la maglia non la comprai, come facevo a chiedere altre 2.500 lire ai miei? Poi avevo la consapevolezza che non avrei mai giocato quella partita, ero il più scarso, però sarei stato il primo tifoso in panchina.
Non comprammo i calzoncini, ne i calzettoni, discorso lungo… Sarebbero bastate le maglie per identificarci.
Finalmente arrivò il giorno della partita, nell’eccitazione totale, e l’ansia immancabile. Arrivò il Sindaco Aniasi, foto di rito, taglio del nastro e prese via l’incontro. I ragazzi dell’Aics Olmi erano forti, almeno così mi apparvero. Nelle loro divise bianche e rosse mi sembravano perfetti e invincibili. Noi avevamo Matteo, col 3, che correva sulla fascia sinistra, mio fratello col 7 su quella destra. Poi c’era Ivano col 10, Valerio col 9, il più bravo di noi, con un trascorso nei pulcini dell’Inter…come portiere. Infine Fabrizio con l’8. Gli altri mi scuseranno ma non ricordo più i loro nomi. Ognuno di noi aveva i calzoncini di forma o di colore diverso e le calze erano quelle di tutti i giorni, non sportive. La nostra qualità avrebbe sopperito.
Io seduto accanto al portiere di riserva, guardavo la partita e le mie scarpe. Per l’occasione, dopo le continue lamentele di mia mamma, perché grattugiavo le scarpe buone giocando a pallone, avevo ai piedi un paio di scarpe da tennis, di tela, marca anonima. Quando le avevo usate per la prima volta, sul pallone di cuoio duro come un sasso mi sembrava di accarezzarlo come Pelé. Le migliori scarpe del mondo. Bellissime!
La partita prese una brutta piega, uno a zero per loro, fine primo tempo. Iniziò il secondo tempo, Fabrizio infastidito cominciò a passeggiare per il campo, non rincorreva l’avversario, non giocava, c’era qualcosa che non andava. Era arrabbiato perché i compagni non gli passavano la palla.
Il nostro allenatore mi guardò e mi disse: “Scaldati, che entri in campo!” (non andò proprio così, non si usava scaldarsi, almeno al nostro livello). Mi disse semplicemente: “Entri al posto di Fabrizio”.
Ero pronto, agitato, ma pronto. Ma non avevo la maglietta. Qualcuno, non ricordo chi, mi aiutó ad infilarmi quella di Fabrizio.
Ora ero perfetto, era la mia occasione.
Entrai in campo e ci misi tutto il mio impegno. Ad un tratto ci fu una palla a campanile, e io saltai per anticipare l’avversario e stopparla di petto, almeno nelle intenzioni. Ne venne fuori uno stop a inseguire, con la palla che voló sopra la rete di recinzione, per poi finire nel “nostro fosso” pieno di acqua.
La partita finí. Aics Olmi 2 - Harlem boys 0.
Quello fu l’unico incontro serio disputato dalla nostra squadra. Negli anni a seguire cambiai sport, con migliori risultati. Tranne mio fratello, non ho più visto nessuno degli Harlem Boys, spero che la vita gli abbia riservato il meglio.
Non abito più in quella zona, mi sono trasferito in provincia di Milano.
Recentemente, dopo più di 50 anni, sono passato al Quartiere degli Olmi al Centro Sportivo Aics, é molto cambiato, campi a 5, a 11 e quant’altro.
Dei due Olmi che erano vicino al fiumiciattolo ne è rimasto soltanto uno...
e il corso d’acqua non c’è più.
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