La situazione in cui si trovava l’Italia nel secondo dopoguerra, sia a livello economico, industriale e di infrastrutture disastrate e case bombardate, che a livello sociale, divisa da vecchie e nuove fazioni, era molto critica e comportava enormi sofferenze alla popolazione. In quegli anni la classe dirigente politica ed economica, con oculatezza e pragmatismo, guidò il Paese per la ricostruzione fisica e per la forza unificatrice nazionale così come alcuni campioni dello sport diedero un contributo fondamentale per sostenere moralmente la popolazione.
Lo sport, finalmente libero da pesanti ingerenze del regime e fuori dagli schemi della rigida organizzazione para-militare, si trovava in un contesto paradossale
.
Dal 1945 al 1950 all’incirca, tutte le istituzioni politiche dedicate allo Sport, a partire dal CONI, non furono smantellate, anche per volere dell’allora Presidente del Consiglio De Gasperi. Dopo la fine delle ostilità, gli statuti degli organismi sportivi rimanevano obsoleti e non funzionavano più con la politica del momento. In quegli anni ci si trovava nella situazione di revisione delle nuove istituzioni, mentre lo sport di competizione, incongruente alla normativa ufficiale, doveva nonostante tutto andare avanti con i propri campioni.

Tornavano in attività coloro che avevano gareggiato negli ultimi anni prima della guerra o nel corso della stessa. I loro nomi sono ben noti: fra i principali ricordiamo Il Grande Torino, Bartali, Coppi, Tazio Nuvolari, insieme con tanti altri meno famosi. Questi campioni erano stati da sempre nel cuore degli sportivi italiani, grandi appassionati dello sport, i quali riuscivano quasi sempre a distinguere il reale campione dalla strumentalizzazione messa in atto dal regime fascista.
Questo era il contesto in cui i campioni di quel periodo assunsero una valenza sociale ben precisa.
Sicuramente si trattava di simboli della rinascita. Proprio questi campioni svolgevano uno sport ad alto livello, con mezzi mediocri, ma con tanta passione, ritornando al livello pionieristico.
Tutti avevano alle spalle un passato burrascoso. Alcuni calciatori, in periodo bellico, avevano accettato di mettersi al sicuro in squadre aziendali, come il Torino Fiat. Vi trovarono posto numerosi giocatori del Torino e della Juventus. I giocatori de La Spezia furono ospitati nella squadra di calcio dei Pompieri della città. Fausto Coppi, purtroppo, conobbe la dura prigionia in Africa, presso gli Inglesi e dovette aspettare il 1945 per risalire a bordo di una bicicletta. Gino Bartali, invece, trovatosi nel vivo della lotta, con la scusa dell’allenamento, macinava 350 Km. al giorno, da Assisi a Firenze, trasportando a bordo della sua bicicletta, documenti che salvarono la vita a circa 800 persone di religione ebraica.
Dunque, questi campioni erano stati toccati dalla guerra e adesso, dopo la Liberazione, potevano ritornare allo scoperto con le loro imprese e regalare al pubblico quell’interesse e quell’entusiasmo che consentiva di allontanare momentaneamente il vissuto dei tempi passati e superare le preoccupazioni per le ristrettezze che il presente richiedeva.
A quell’epoca le notizie venivano fornite dalla radio: le parole dei cronisti possedevano una valenza pressoché magica.
Ad una certa ora, quando la corsa si trovava in un punto critico, come su un colle, in una  discesa o salita impegnative, la gente si dava appuntamento e si radunava in piazza, attorno ad una radio, per ascoltare la radiocronaca. Nella storica tappa del Giro d’Italia Cuneo – Pinerolo del 1949, Coppi scalò da solo i colli Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere. Allorquando il radiocronista Marco Ferretti, con forte trasporto emotivo, annunciò: “Un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste: il suo nome è Fausto Coppi!”.  Tutti i tifosi dell’Airone, esultarono e fecero festa per quell’epica vittoria del campione piemontese.
In quei frangenti, durante l’attesa, la gente socializzava, volavano sfottò su Bartali e Coppi, mentre la voce del cronista dava forma alla fantasia degli ascoltatori, liberandone la mente da pensieri e affanni. Tanta la gente che sognò con i grandi Mario Ferretti e Nicolò Carosio.
Quest’ultimo fu la voce “che fece vedere” le prodezze dei campioni del Grande Torino.
Anche i radiocronisti sono da annoverare fra le persone che, in quegli anni, ebbero la capacità di lenire le ferite degli Italiani.
I campioni erano molto vicini ai sostenitori, avevano il loro stesso passato, erano persone comuni che riuscivano ad affrancarsi eccellendo nello sport con gesta veramente notevoli. Ciascun cittadino aveva il proprio beniamino, costui al di fuori dello sport si rapportava alla pari con i propri tifosi. Avevano persino le stesse ambizioni: coloro che potevano permetterselo, investivano il denaro guadagnato in attività tali da costruire un possibile futuro; il sogno di molti italiani.
I nostri campioni rappresentavano un ottimo biglietto da visita dell’Italia all’estero. Riuscivano a fornire un’immagine positiva di pace, in quegli anni in cui la diffidenza verso la nostra popolazione, purtroppo giustificata, era ancora molto forte. Si ricorderà l’imbarazzo di De Gasperi nel suo primo discorso alle Nazioni Unite in qualità di Premier Italiano, dopo la guerra. De Gasperi doveva riuscire a vincere i preconcetti degli stranieri, soprattutto in quei Paesi in cui i nostri connazionali si recavano per affari o semplicemente per lavorare. Erano gli sconfitti che si riaffacciavano all’Europa ed al mondo.
I campioni italiani, in grado di sbaragliare tutti a livello internazionale, si presentavano come scampati alla guerra e nonostante fossero considerati antagonisti sportivi dei contendenti di un tempo, a poco a poco, tornarono a farsi apprezzare.
I campioni di allora favorirono l’aggregazione tra persone schierate su posizioni opposte e conflittuali.
In quegli anni ogni campione sportivo assumeva il ruolo di simbolo di una fazione. Nel caso di Coppi e Bartali, inflessibili rivali, si ritrovarono dopo il 1945, a rappresentare ognuno un gruppo in contrapposizione: Fausto Coppi scelse il pensiero di sinistra, mentre Gino Bartali rimase sulla linea cattolica. Entrambi divennero gli emblemi dei rispettivi partiti nelle famose elezioni del 1948. A lungo la loro competitività divise gli italiani in due correnti.

Si verificò un’occasione in cui un’azione di Gino Bartali, si rivelò davvero importante.
Era il 1948, dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del PCI  ed ex Ministro della Giustizia nel 1945-46, quando la tensione in Italia aveva raggiunto un livello così pericoloso  da correre il rischio di una rivoluzione.
Bartali partecipava al Tour de France, consapevole di quanto stava accadendo nel nostro Paese ed aveva ricevuto precise indicazioni per tentare di vincere il Tour a tutti i costi.
La passione per il ciclismo e lo spirito nazionale avrebbero dovuto prevalere sulla tensione politica.
Infatti la vittoria di Bartali suscitò tale entusiasmo e così grande festa da calmare le acque.
Dire che Bartali salvò l’Italia dalla guerra civile è eccessivo, ma sicuramente il Campione svolse un ruolo da pacificatore sulla popolazione.
Nel 1952, dopo anni di antagonismo, i nostri due, Bartali e Coppi, si trovarono a partecipare al Tour de France in un’unica squadra: la Nazionale Italiana. Durante la scalata al Col du Galibier un fotografo riuscì a immortalare in una fotografia l’istante in cui i due campioni si passarono una borraccia. Tale immagine divenne un mito, una pietra miliare nella storia dello sport italiano. Nessuno svelò mai chi ricevette la borraccia o chi la cedette. Questa icona divenne l’emblema di una Nazione divisa ideologicamente, ma che sapeva unire le persone nel momento del bisogno. Emergeva la capacità di andare oltre i confini personali per mezzo dei valori, della stima e del rispetto reciproco. Doti che, se riscoperte ed adottate  nuovamente al giorno d’oggi, potrebbero portare indubbi vantaggi per tutti.

Da un altro sport, quello della velocità e dei motori, emerse un ulteriore esempio di valori umani, di rispetto e di nobiltà d’animo; stiamo parlando dell’Asso per eccellenza delle corse automobilistiche prima e dopo la guerra: Tazio Nuvolari, detto “Nuvola”.
Ebbe un ruolo importante nelle gare automobilistiche del dopoguerra. “Nuvola” era noto per le sue qualità umane
. Correva con lealtà, correttezza e soprattutto coraggio. Aveva la capacità di riuscire a terminare  le corse con l’automobile danneggiata, rabberciata da lui stesso, dimostrando carattere fiero ed intrepido.
Tazio Nuvolari, prima motociclista, poi pilota d’auto da corsa, perdurò agonisticamente un trentennio. Dopo la sospensione dovuta alla guerra, riprese le competizioni riportando altre vittorie e regalando al suo pubblico nuovo entusiasmo; seppe dare il proprio personale contributo per creare momenti di gioia ed entusiasmo in quei tempi durissimi della ricostruzione.

Sul Grande Torino già molto è stato scritto, poco, però sul ruolo sociale e umano che svolse nel contesto in cui è esistito, non meno importante dei valori sportivi di quella compagine. La squadra è diventata leggenda dopo il tragico disastro sulla Basilica di Superga, alle porte di Torino. Le prodezze sono ricordate ancora ai nostri giorni, rese indelebili dallo schianto che scolpì nel tempo le leggendarie gesta di Valentino Mazzola e dei suoi compagni.
Era il 4 maggio 1949 alle ore 17:03, sull’aereo Fiat G.212 - compagnia aerea ALI, siglato I-ELCE.
Praticando uno sport semplice, popolare come il calcio, i ragazzi granata giovarono al morale di tanta gente. Le loro vittorie, inconsapevolmente, furono un balsamo, un’efficace cura per lenire il male sopportato per tanto, troppo tempo e quasi un conforto, una consolazione per gli stenti che si dovevano ancora sopportare in quel periodo.
Torino, come il resto del Paese, era martoriata dalle bombe, il lavoro scarseggiava o veniva svolto prevalentemente a mano e spesso si doveva accettare il peso di una scarsa alimentazione basata su un solo pasto al giorno.
La città presentava ferite che rimasero evidenti per anni, come nella zona di Palazzo Nuovo e dell’Istituto per la Vecchiaia (noto con la denominazione ormai superata di Poveri Vecchi).
La città era disseminata di residuati bellici che ancora oggi, durante gli scavi, rappresentano un serio pericolo. L‘architettura barocca della città spesso dovette accettare soluzioni di continuità con edifici moderni, costruiti sulle macerie di quelli abbattuti dalle bombe alleate.
Sui muri delle case di Torino spiccano frequentemente lapidi a ricordo di partigiani, passati per le armi dalle truppe nazi-fasciste, il ricordo di quegli eccidi era soprattutto allora, ed ancora oggi, ben presente nella memoria di tante persone.

In quel contesto, i ragazzi dalla maglia granata, con le loro gesta, con le loro vittorie, fecero tornare il sorriso sulle labbra di molti italiani, in particolare di coloro che avevano la possibilità di recarsi allo stadio camp Turin, il Glorioso Filadelfia, dove potevano annegare le difficoltà nella bellezza del gioco del Grande Torino, nei gol di Gabetto, nelle serpentine di Maroso, nei lanci di Mazzola.
Una formazione che si trasformava quando Oreste Bolmida, il Trombettiere del Filadelfia, in perfetta sintonia con la squadra, metteva in azione il suo strumento. Raccolto il segnale, Mazzola si rimboccava le maniche, i suoi compagni coglievano il momento, si accendeva lo spirito e per il successivo famoso quarto d’ora granata, lo spettacolo ed i gol erano assicurati. 
Tutti i presenti, di fronte a questo spettacolo, gioivano e dimenticavano le proprie avversità, non solo per pochi minuti, bensì portando a casa la loro gioia con i positivi racconti sulle prodezze dei loro Invincibili.
Era noto che cosa spesso accadesse nello spogliatoio granata, dopo le vittorie.
“A Mazzola stipendio doppio”. A quel Valentino Mazzola artefice e trascinatore di vittorie, il quale, dovendo mantenere due famiglie, necessitava di maggiori proventi. Per solidarietà i compagni di squadra, consapevoli dei suoi bisogni, gli cedevano parti significative dei premi ricevuti.
Chi si reca oggi al Museo del Grande Torino e della Leggenda granata, è colto da profonda commozione in quelle sale, specialmente davanti ai resti… scarpe, valige, le casacche granata, fotografie… lettere… parti di aereo… i volti degli Invincibili nei filmati dell’epoca… il Filadelfia stracolmo di tifosi… ed alcuni reperti rimasti dalla pazzia di chi volle abbattere quel Tempio, in novelli giorni infausti.
In quel Museo quasi si respira l’atmosfera del Grande Torino e si comprende come tutto fosse stato sincera felicità...  nonostante la vita di stenti e privazioni degli anni dopoguerra.
I Campioni del Grande Torino, amati in tutt’Italia, erano giocatori di calcio genuini autentici, non ancora intaccati nell’integrità fondamentale.
Altri tempi, altra cultura, altro modo di essere, quando anche la tifoseria conosceva il valore della sportività, di quello che oggi chiamiamo correttezza e rispetto dell’avversario, spesso disattesi.

Quel Grande Torino, un giorno infausto, sparì in una nuvola, su un muraglione impervio che gli impedì di continuare il volo.
Quei ragazzi si fermarono là.

L’affetto, in un abbraccio corale delle migliaia di genti, presenti in quei giorni a Torino per l’ultimo saluto, continua ancora oggi a scaldarne la memoria.
Che bello aver conosciuto da racconti e testimonianze, le gesta di questi campioni. Che bello aver saputo da mio padre, da suo fratello e dai loro amici chi erano e quanto contavano. Quando si parla di loro si dice “Altri tempi e altre persone”. Eppure, tutti coloro con i quali ho dialogato di questi campioni avevano tutti gli occhi lucidi quando ricordavano qualche fatto che li vide coinvolti, che li aveva divertiti, entusiasmati in quegli anni in cui vivere era molto difficile.
Augurandoci che quelle condizioni non si verifichino più, certamente i nostri campioni tornerebbero per ridarci il sorriso, per accendere fiammelle che illuminerebbero e scalderebbero i nostri animi.
Grazie Campioni!