Per definizione, temi come razzismo, scontri, e altre brutture che avvengono purtroppo spesso all’interno degli stadi, preferisco evitarli. Questo in quanto è difficile trovare parole che non vengano confuse con un’inutile retorica. Dato però il rumore, a mio avviso, giustamente generato dai fatti di Verona, mi riesce difficile trattenere qualche frase in merito.
Purtroppo quanto accaduto, al di là di tutte le polemiche e le valutazioni che ne sono venute fuori, è triste dirlo, ma non mi ha stupito. Simili eventi infatti non mi sorprendono più da tempo e, forse, è proprio questa la cosa più brutta, quella più insopportabile. Abbiamo dimenticato che cos’è lo sport, sottoscritto compreso. Lo abbiamo dimenticato, perché abbiamo permesso alle questioni politiche di entrare all’interno degli stadi. Qualcuno mi risponderà stizzito “è normale, al mondo tutto è politica, persino lo sport”. Forse è vero, anzi lo è di certo, così come è sempre stato. Ma rispetto a epoche passate, potremmo dire addirittura antiche, è cambiato qualcosa, i ruoli si sono invertiti. Mentre oggi sono la politica e il pensiero esterno a influenzare lo sport, in tempi ancestrali accadeva il contrario. 

Se la memoria ci aiuta sui nostri trascorsi scolastici, dovremmo infatti ricordarci tutti di una particolarità che avveniva durante l’epoca degli antichi greci. Tale evento era detto “tregua olimpica”, il quale prevedeva che, durante i giochi olimpici della Grecia e delle sue colonie, tutte le inimicizie civili e nazionali venissero sospese. In altre parole, se in quel momento c’era una guerra o uno scontro tra due fazioni partecipanti alle olimpiadi, queste dovevano deporre le armi, al fine che le olimpiadi potessero avere luogo. Una o addirittura più guerre si fermavano dunque esclusivamente in nome dello sport. La competizione civile che vinceva su quella politica e sanguinaria. Lo so, a parlarne sembra pura utopia ed è probabile che, al tempo, non fosse tutto rose e fiori come i libri di storia invece vorrebbero descriverci. Sta di fatto che, almeno in quel pezzetto di terra chiamata Grecia, dove nacque di fatto la cultura occidentale, in alcuni momenti lo sport prevaleva sulle questioni politiche. Si dice che ben 292 olimpiadi si ebbero nel corso di circa tre secoli, eventi dove atleti e spettatori avevano il diritto di partecipare, senza il rischio di essere attaccati o molestati in nessun modo. Vero, in quelle olimpiadi, erano solo gli uomini, per di più esclusivamente greci a partecipare. Quella però non era l’epoca globale in cui ci troviamo noi tutti, dove per andare da una parte all’altra del mondo bastano poche ore di volo. Quello su cui invece vorrei concentrarmi è proprio la sostanza di questa “tregua”, ovvero di come lo sport, oggi retrocesso in posizione di minore importanza rispetto alle questioni politiche, prevalesse su tutto il resto, anche se per poco. Quasi lo sport fosse baluardo del concetto di civiltà, unico vero campo in cui il significato di umanità potesse realmente esprimersi. Un avvenimento importante come l’Olimpiade era dunque il momento in cui, lo possiamo immaginare così, tutti si fermavano a dire “fermate tutto, basta idiozie. Ora dobbiamo giocare”. 

Giunti in epoca moderna, le cose non sono più state così. Le Olimpiadi le giochiamo ancora, ogni 4 anni, da quando vennero riorganizzate universalmente in quel lontano 1896. Ma da quel momento, la tregua olimpica non è più esistita.
Tornei, campionati e intere competizioni sono infatti stati essi stessi arrestati a causa di due conflitti mondiali, e non il contrario come sarebbe avvenuto in antichità. Se una nazione è in guerra con un’altra, queste due non vengono invitate. In alcuni casi addirittura, vi sono stati dei forfait clamorosi, in quanto alcune nazioni non volevano confrontarsi su territorio politicamente “nemico”. Sto parlando del boicottaggio americano durante Mosca ’80 e, viceversa, il boicottaggio sovietico nel corso di Los Angeles ’84. Lo sport è dunque così decaduto, da non aver più quel potere di influenzare la cultura, persino la politica, e non il contrario? Sarebbe bello negare una simile affermazione e, a dire il vero, qualche esempio la storia ce lo offre. Se così fosse infatti, non avremmo avuto episodi come quello della strana amicizia tra Jesse Owens e Luz Long, durante Berlino ’36. Il primo, il quale era un giovane afroamericano, commise l’affronto di vincere diverse medaglie di fronte ad Adolf Hitler. Lui che aveva la pelle nera e che quindi, per orribile definizione nazista, era considerato inferiore. Ciò nonostante, in quell’olimpiade strana, riuscì a covare un rapporto a dir poco particolare, per il tempo e la situazione. Luz Long, alto, biondo e con gli occhi azzurri, prototipo perfetto dell’ariano in stile nazista, condivise con Owens un’amicizia stupenda. Un’amicizia fatta di un rispetto e di una stima che, con un secco colpo di spugna, cancellarono ogni influsso politico sul nobile sport. Quasi lo sport stesso, dotatosi improvvisamente di voce propria, avesse deciso di urlare “basta” a un mondo completamente impazzito. Cosa ancor più bella, per chi non lo sapesse, Owens e Long non erano semplici atleti di nazionalità diversa, ma avversari diretti in diverse gare. 


Tra le nostre mura, volendo si potrebbe anche citare la leggenda del Tour de France 1948.
Il 14 luglio di quell’anno, in piena competizione ciclistica e nel corso dei festeggiamenti transalpini per la repubblica, Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista, venne raggiunto da quattro colpi di pistola. In un’Italia uscita da poco da un conflitto mondiale, il rischio di una guerra civile era di nuovo vicinissimo.
Leggenda vuole che, mentre migliaia di persone stavano lucidando i fucili nascosti in cantina, pronti a dar battaglia nelle strade, due giorni dopo, il 16 luglio, la radio cominciò a gracchiare una storia incredibile.
Gino Bartali, partecipante al Tour De France, era in apparenza fuori dalla gara per il titolo, dati i venti minuti di distacco dalla vetta. Eppure, quando egli tagliò il traguardo di Aix-les-Bains conquistando la tappa, dopo continui ricontrolli ai cronometri, i giudici sancirono il responso: Gino Bartali aveva recuperato completamente il ritardo, conquistando così la maglia gialla.
In quel momento, sempre per volere del mito moderno, il popolo d’Italia si dimenticò improvvisamente delle proprie ostilità e scese in piazza a festeggiare. Nelle stesse strade dove a breve sarebbe potuto scorrere parecchio sangue, i vecchi avversari e nemici si ritrovano a esultare assieme, magari persino abbracciati, anche se solo per poche ore. E così, un po’ come accadeva nella lontanissima antichità, lo sport, ancora una volta, aveva cancellato lo spettro della guerra.


A raccontare simili, meravigliose, storie, pare dunque incredibile credere che oggi, negli stadi, accadano cose simili a quelle di Verona.
Pare incredibile vedere un giocatore, al di là di chi sia e cosa abbia fatto in passato, spedire malamente un pallone in curva. Il motivo: cori e ululati razzisti. Poco conta, almeno a mio avviso, che rendersi protagoniste di un simile gesto siano state dieci, cento, o mille persone. Ne basterebbe solo una infatti, per rovinare una cornice stupenda come quella di un incontro sportivo. Lo sport, dove la politica non dovrebbe rientrare, lasciando aperti i varchi solo alla cultura.
Eccolo dunque, il punto focale. La cultura.
Molto spesso si dice che il problema del razzismo, degli scontri sugli spalti, dell’odio territoriale siano delle questioni culturali. Niente di più vero. E purtroppo la cultura è una cosa che ci mette una o forse più generazioni per poter crescere. Parte dall’educazione, ma soprattutto dall’esempio. Non c’è infatti miglior metodo educativo di quello dell’imitazione. Perché problemi come il razzismo non partono semplicemente da concetti “teorici” come l’eugenetica e altre amenità, ma da qualcosa di meno appariscente e di più semplice. Parte per esempio dal fare selezioni di giocatori, sin dai loro primissimi anni di vita. Selezioni che non prendono in considerazione la passione, decisamente difficile da quantificare, preferendo ad essa freddi dati calcolabili, come altezza, peso, numero di gol. Parte quando parole come “campione” e “scarso”, per non dire peggio, vengono marchiate sulla pelle di quelli che non sono ancora atleti, ma solo bambini. Bambini che imparano dunque a valutare da subito i propri compagni, forse persino gli amici, con queste categorie astratte, come se la passione e la voglia di giocare assieme non abbiano importanza. Parte quando il mondo adulto, fatto di terribili imperfezioni a volte, entra in quello dei bambini. Certo, se si vuole fare dello sport una professione, selezionare i migliori è una cosa naturale. L’errore sta nell’iniziare presto, nel dare l’idea che lo sport sia un qualcosa che solo alcuni possono fare. Lo sport non è questo, tanto che a volte ci mette lo zampino e decide di sparigliare le carte: quelli che vengono considerati aspiranti campioni, decadono nel corso della loro carriera; gli scarsi di partenza invece, con passione e lavoro, arrivano ad alti livelli. Chissà, magari a vincere anche trofei importanti. Questa però è un’altra storia. Ciò che conta è che questo atteggiamento, il dividere ed etichettare dei bambini per categorie rigide, rimane e purtroppo, a volte, viene appreso dagli stessi bambini. E, sfortunatamente, a volte tra il dividere i propri amici per bravura e il considerare le persone in maniera diversa per il colore della pelle, il passo può essere assai breve.

Abbiamo dimenticato che cos’è lo sport.
Abbiamo dimenticato che innanzitutto lo sport è passione e voglia di mettersi in gioco. Abbiamo dimenticato che lo sport, almeno un tempo, aveva il compito di unire e non dividere; di creare obiettivi, non bersagli; di incoraggiare, non insultare. E forse, perché no, addirittura di redimere le persone, dai propri errori come dalle proprie sfortune. Lo sapeva benissimo Babe Ruth, il quale grazie al baseball, e padre Thomas che lo incoraggiò a provare, probabilmente evitò una vita fatti di furti e delinquenza, anche se non riuscì a sconfiggere l’alcool. Lo sa benissimo Alex Zanardi, che dopo aver perso le gambe in un brutale incidente, grazie allo sport è riuscito a rialzarsi, letteralmente, e divenire un campione olimpionico. 

Abbiamo dimenticato che cos’è lo sport e chissà se saremo mai in tempo di ricordarci qualcosa dei suoi veri valori. E se ce la faremo, forse lo sport ci salverà da tante idiozie che generano mostri, quali il razzismo e altre brutture della nostra civiltà.

“L’uomo è interamente uomo soltanto quando gioca” - Friederich Schiller