Mai mi sarei aspettato, nel corso della mia vita, di dover assistere al fenomeno di irreversibile involuzione che sta coinvolgendo lo sport e le sue più celebrate icone.

Sabato sera, 8 settembre, ero seduto davanti alla TV, pregustando già lo spettacolo di una finale degli U.S. Open che si preannunciava interessante. La presenza stessa di Serena Williams, plurititolata campionessa del tennis, 23 titoli Slam e 72 tornei WTA, solo per citare quelli importanti, era di per sé sufficiente garanzia di divertimento.
Numero uno al mondo per interi lustri. Dominatrice assoluta su tutte le superfici dalla terra rossa del Roland Garros… al cemento degli U.S. Open, dall’erba di Wimbledon… a quella del suo giardino.
Una stella di prima grandezza, Serena, nell’universo dei campioni dello sport di tutti i tempi, un vero e proprio “mito sportivo” moderno.
Un mito che è andato ad infrangersi inesorabilmente contro il muro di classe e tenacia eretto da una determinatissima ventenne giapponese.

Fin qui tutto normale… o quasi, perché la rappresentazione andata in scena sul cemento di New York ha davvero del surreale, infatti, dopo aver giocato soltanto due games del secondo set, l’americana ha dato fuori di…matto.
Dapprima ha spaccato una racchetta….. ci può stare, una comprensibile tensione …si dirà…..
Poco dopo la focosa Serena ha riversato la sua rabbia, cieca e insensata, sul giudice di sedia, reo di averla redarguita e quindi sanzionata, sottraendole prima un punto e poi un game.

L’episodio però non si è esaurito nel rituale contradditorio tra un giudice di sedia ed un’atleta tesa e un po’ su di giri (lo hanno fatto tanti altri campioni del tennis prima di lei), ma ha subito preso una deriva diversa, in un crescendo wagneriano che dall’epiteto “ladro”, rivolto sempre all’arbitro dall’ineffabile Serena, è proseguito con l’anatema: <… non arbitrerai mai più una mia partita.. > per sublimarsi infine con le accuse di…. sessismo.
Accuse ribadite e confermate, qualora ce ne fosse stato bisogno, anche a mente fredda nella conferenza stampa del post gara.
Una sceneggiata di altissimo livello mediatico che ha consentito a Serena di rubare la scena alla giovane Naomi Osaka, sicuramente più meritevole di attenzioni mediatiche, avendo vinto la finale.

La domanda che mi pongo è la seguente: cosa spinge un’atleta affermata, campionessa indiscussa “chehavintotuttoquellochec’eradavincere” a lasciarsi andare in quel modo?

Mi sono posto pressappoco la stessa domanda quando ho visto un pluridecorato portiere, di una titolatissima squadra di calcio, perdere all’istante e malamente per di più, il suo aplomb di inveterato campione, proprio subito dopo un rigore fischiato a suo sfavore al 93° minuto.

Qualcuno potrà dire: è comprensibile! Si tratta di atleti che vivono una particolare situazione emotiva, perché prossimi al tramonto di una carriere sportiva, e sotto stress possono diventare facilmente irritabili specie di fronte al profilarsi di una sconfitta.
Comprensibile ….forse, ma non certo giustificabile.

Ma cosa dire allora del pilota di Moto2 che, domenica 9 settembre, si è reso protagonista di una inspiegabile quanto incosciente iniziativa?
Sul circuito di Misano, dove si correva il Gran Premio di San Marino, il brillante pilota - brillante è un eufemismo, s'intende! - si avvicinava alla moto che gli sta davanti e stendendo il braccio tirava la leva del freno,... mica della sua moto, di quella del rivale ovviamente!
Gioverà ricordare solo che i bolidi su due ruote viaggiavano, su quel tratto di circuito, alla velocità di 250 km/h. Niente male davvero!
A vederlo quasi non ci credevo. Eppure credetemi, è andata proprio così !

E del Vale Nazionale ne vogliamo parlare? Tre anni fa gli fu sufficiente una pedata ben assestata per “liberarsi” dalla scomoda presenza dello spagnolo Marc, disarcionandolo dalla moto.
Vogliamo tutti bene a Vale, lo abbiamo perdonato. Ma l’episodio non si può cancellare e resta ancora adesso difficile da comprendere.

Forse oggi lo sport è soltanto lo specchio sincero della nostra società, dove non è sufficiente gareggiare, dove non basta esserci, ma conta solo arrivare primi, vincere, risultare i migliori, i più bravi, i più belli ….i più fichi.
Una rincorsa ai soldi ed al successo facili, da conseguire con ogni mezzo, doping compreso, ovviamente.

Una corsa dove non ci si confronta lealmente con gli avversari, anzi, ogni avversario diventa un ostacolo ingombrante e indesiderato sul proprio cammino verso la gloria, un birillo da abbattere senza remore.

E se non si vince ? Se non si vince….., si troverà sempre il modo di fare spettacolo.
Infatti oggi per rimanere a galla nello Star System dello sport non è più necessario vincere, potrà infatti bastare un coup de théâtre ben giocato ed il tritatutto mediatico farà il resto.

A questo punto mi viene spontanea la famosa battuta di un comico: …< Voglio tornà bambino!!!...>

E sì, perché quando ero bambino, sotto le spoglie del campione ho sempre trovato la persona, vale a dire un uomo in grado di trasmettere ai giovani valori importanti.
Chi non ricorda Gigi Riva e il suo ammirevole attaccamento alla squadra del Cagliari?
In nome dell’Amore per una maglia ha rinunciato ai facili guadagni ed ai successi che gli squadroni del nord, che lo hanno corteggiato per anni, gli avrebbero certamente garantito.

E Niki Lauda, come potrei dimenticarlo ? E’ l’uomo che ha trovato la forza di ribellarsi ad un sistema che trattava i piloti come carne da macello. Si rifiutò di partire, nel 1976 al gran premio del Giappone, perché le condizioni meteo proibitive avrebbero messo a repentaglio l’incolumità sua e quella dei colleghi. Era l’ultima prova del campionato mondiale e il ritiro di Niki dalla gara consentì a James Hunt, arrivato terzo, di vincere facilmente il titolo mondiale piloti con …..un solo punto di scarto su di lui!
Una dimostrazione di personalità e dignità
. Magari anche di paura, ma la paura è parte integrante del bagaglio emozionale dell’uomo.

E del mitico Muhammad Ali, alias Cassius Clay, ne vogliamo parlare ?
Nel match del secolo, disputatosi in Zaire nel 1974, per sette interminabili round, con tenacia e spirito di sacrificio sovraumani, Clay subì i colpi micidiali assestati dal suo avversario George Foreman che sembrava invincibile. Eppure….., eppure nell’ottavo round, Alì servendosi delle sole energie residue fisiche e mentali, proprie del fuoriclasse di rango, sferrò un gancio e un diretto che misero al tappeto l’avversario e segnarono la fine dell’incontro. Non ci fu bisogno di colpi bassi,... di sgambetti.  Quei due pugili scrissero così una delle pagine più belle che la storia della boxe possa vantare.

Storie di sport scritte sempre a quattro mani da vincitori e vinti, vinti che hanno saputo perdere con onore e dignità.
Ancora, solo per citarli: Gustavo Thoeni, Giacomo Agostini, Dino Zoff…. e tantissimi altri, l’elenco sarebbe lunghissimo.
Atleti che hanno vinto tanto,… hanno vinto tutto. Eppure hanno saputo sempre mantenere un profilo basso, scevri dal montarsi la testa. I loro successi sono stati il frutto dell’umiltà, dell’impegno, del sacrificio e ovviamente di classe e talento innati.

Ognuno di loro ha saputo lasciare una traccia indelebile nella storia dello Sport (proprio così, scritto con la maiuscola) dando lustro all’immagine della disciplina a cui si è dedicato.
Ognuno di loro ha saputo, poi, uscire a testa alta ed in punta di piedi di fronte a quello stesso parterre che lo aveva consacrato campione. Campioni silenziosi di sobrietà e dignità.
Amore, Tenacia, Impegno, Sacrificio, Serietà, Sobrietà, Onore e Lealtà. Oggi faccio davvero fatica a ritrovare questi valori nello sport, in tutte le sue manifestazioni.

Per questi motivi mi sento di affermare che serberò con sincero affetto, e immensa riconoscenza, il ricordo dei miti dello Sport della mia adolescenza che, lo confesso, non cambierei mai con quelli di oggi.