Charles Schulz, il creatore di Snoopy, un giorno pronunciò questa frase: “A Natale sono tutti più buoni. È il prima e il dopo che mi preoccupa”.
Con quello che si è visto in questi giorni è persino riduttivo parlare di preoccupazioni, si tratta infatti di un vero e proprio allarme sociale. Non è bastato il morto di San Siro, figlio di una guerriglia e di un agguato premeditati; non sono bastate nemmeno le manifestazioni di razzismo nei confronti del franco-senegalese napoletano Koulibaly; non sono servite a nulla le dure prese di posizioni delle istituzioni e le decisioni prese dagli organi sportivi. Alcuni tifosi, ieri mattina, hanno pensato bene di scontrarsi in un autogrill in Toscana. Violenza allo stato puro, senza motivo: un pullman di tifosi torinisti preso a sassate dai bolognesi. Dal governo si studiano misure più o meno severe per arginare i tifosi violenti, ma quello a cui abbiamo assistito non è tifo, è criminalità, e come tale andrebbe trattata.

Quando era stata annunciata la rivoluzione copernicana nel calendario della Serie A, che per la prima volta dopo quasi 50 anni ha deciso di giocare il giorno di Santo Stefano, credevo fosse una grande opportunità per mostrare la parte migliore del nostro calcio. Già perché il calcio italiano ha molti volti: emozionante, aggressivo, eccitante, violento, ansioso, razzista, e quasi perennemente isterico. Tutti estremi di un mondo che emergono lampanti in un paese come il nostro, che ha un rapporto con il calcio molto intenso, quasi viscerale. In Italia, forse, diamo troppa importanza al calcio, e la passione che proviamo per questo sport a volte travalica i confini dell'amore e trascende in ossessione e ovviamente in qualcosa che è molto pericoloso e nocivo, ossia la violenza. Anziché le emozioni e lo spettacolo, in questa settimana di Serie A, ha avuto la meglio la raffigurazione del peggior stereotipo riprodotto in tutto il suo bagliore, e le immagini di violenza, devastazione, incidenti, e di un morto sono ancora ben vive negli occhi di tutti. Restano l'amarezza per ciò che si è visto e sentito, resta la rabbia di molti, resta il provvedimento verso l'Inter con due partite a porte chiuse, e una terza con ingresso vietato ai tifosi della curva. Resta il ricordo di partite emozionanti quai cancellate da ciò che non è calcio. Sapore amaro che resta anche nella bocca dei protagonisti della nostre domeniche che postano messaggi sui social contro il razzismo e la violenza. Un messaggio semplice, diretto ed efficace. Potere di un mondo che sa comunicare veloce, ma in cui molti faticano ancora a comprendere i concetti di uguaglianza, inclusione, e no alla violenza. Perché l'odio deve restare fuori dal calcio, dalla vita.

Ci sono molte e profonde ragioni sociologiche alla base di questo negativo rapporto con il calcio, da una sempre crescente mancanza di identità che si riversa nel senso di appartenenza per una squadra di calcio, alle disuguaglianze economiche che persistono nella nostra società. Si è accertato come l'agguato ai tifosi napoletani fosse in realtà premeditato, e Daniele Belardinelli è vittima del contesto di una cultura calcistica che ha portato 24 morti in 55 anni. Calcio e violenza, un binomio dalla lunghissima scia di vittime e sangue. Il periodo più buio è senza dubbio quello degli anni '80 e '90, ma la serie di vittime della violenza da stadio non si è arrestata neanche nel nuovo secolo. Guardando indietro credo che questo sia la conseguenza inevitabile della passione/isteria che ogni settimana circonda il campionato. A volte questa passione sembra attraente, ma la verità è che il calcio italiano è in uno stato perenne di frenesia che sta raggiungendo picchi sempre più insostenibili. Se da una parte tutto ciò crea interesse – inteso in tutti i sensi, pure quello economico – dall'altro crea un sacco di disagi ed enormi problemi, anche oltre la violenza. Basta guardare lo stato della nazionale di calcio e la tensione che la circonda.

L'Italia ha una cultura del calcio a cui l'unica cosa che importa davvero è il risultato che è diventato l'essere tutto e il fino di tutto. Non importa nient'altro. Questa settimana di vergogna è il logico punto finale di questa cultura calcistica. Dove regna il tribalismo, dove dire qualcosa di moderatamente critico nei confronti di una squadra ti rende automaticamente il nemico. L'Italia sembra essere lo specchio di tutto ciò. Ed è anche il motivo per cui gli allenatori vengono licenziati così spesso. E questo non si applica solo nelle leghe professionistiche, ma succede anche nelle categorie giovanili. Nessuno può mai pianificare nulla, perché quei piani dipendono sempre dall'ultimo risultato. Questa è la mentalità che governa il calcio italiano. Ed è questa mentalità unita alla crisi economica che ha fatto rotolare il nostro pallone alle spalle della Spagna, Germania e di tante altre nazioni calcistiche. Perché da noi non si ha la minima idea di come massimizzare quella che potrebbe essere per storia e tradizione una delle più grandi fabbriche di talenti al mondo. Qui il talento non può essere coltivato, la negatività pervade tutto, se non si ha mai la libertà di commettere errori. Tutto dentro il calcio italiano è soffocato, strangolato. Basta guardare a quello che è successo nell'ultima giornata di campionato, quella che sarebbe dovuta svolgersi sotto i migliori auspici per quanto si era visto e sentito appena pochi giorni fa, per capire che forse le cose non cambieranno mai.

Perché alla fine di tutto ci sono loro, gli attori, le star delle nostre domeniche. Coloro che dovrebbero essere esempi di sportività, e che invece come Giampaolo parlano ancora di partita viziata da un rigore, o Inzaghi che dà la colpa a una mancata espulsione, o Pioli che vorrebbe un trattamento paritario da parte degli arbitri. Chi nel calcio ha un ruolo da protagonisti dovrebbe avere una dialettica leale, obiettiva, e cercare di usare il buon senso anche nelle avversità. Perché il cambio di passo non serve solo in campo, ma nella cultura sportiva di ciascuno di noi. Invece da noi vale sempre e soltanto un principio: guai ai vinti. Questa la regola. Per lo spirito di Natale alla Dickens meglio ripassare dopo Capodanno quando ci sarà la sosta di tre settimane.