Bentornati nei racconti di storia reale, che ho appreso da una annata su per giù, e dopo avervi raccontato un calcio d'altri tempi, estrapolato interviste ai diretti interessati, nonchè persone che hanno vissuto un calcio che non c'è più, oggi parliamo con il figlio di un giocatore che all'inizio del 1900 giocava nel calcio che conta, ma per riserbo chiameremo con il nome di Camillo, anche se il nome del calciatore è ben altro, la privacy chiesta da suo figlio, deve essere rispettata, anche perchè nei racconti si parla della vita del suo papà fin dalla nascita e arrivata a qualcosa di strepitoso, ma ora andiamo a sentire cosa mi ha raccontato Lino, figlio di Camillo.

Quando ho ricevuto la tua chiamata, ho pensato che fosse arrivato il momento di raccontare la storia di mio padre, anche perchè se non la racconto io, a breve di mio padre non ne parlerà più nessuno, perchè i suoi racconti sono fermi all'ultima partita che giocò nel 1920, quindi puoi capire, che un ragazzo di oggi non saprebbe mai chi era, è come se Didì e Vavà non avrebbero giocato con Pelè, oggi nessuno saprebbe chi sono. Quindi alla mia veneranda età di 100 anni, mi sento di parlare con un ragazzo che si diletta a fare il giornalista, ma che ha preso a cuore la storia di tanti giocatori che hanno calcato il campo di calcio, ma che oggi nessuno conosce, proprio perchè nessuno gli ha dato luce, come è stato fatto per i grandissimi venuti anni dopo.
Mio padre nasceva a Viterbo, a Bolsena nel 1880, quando tutto era una enorme distesa verde con un lago, già il Lago di Bolsena. La sua famiglia non era benestante, ma umile, lavorava per lo più il suo terreno circostante, oltre a terreni altrui per guadagnare qualche Lira. Era tutto sterrato, e ognuno si coltivava il suo contorno della casa, quindi nessuno aveva invidia degli altri, anzi molto spesso si aiutavano tra loro, scambiandosi le primizie. Il mio papà non andò mai a scuola, al mattino a sette anni, si alzava alle 4 e andava a lavorare i campi con il suo papà, e tornava a casa alle due di pomeriggio, mangiava quel poco che il terreno donava, e poi una bella tinozza di acqua per lavarsi e di corsa a letto, a riposare. Mi raccontava che passava almeno quattro ore a letto, dormiva e si contorceva dal dolore alle mani, piedi e schiena, perchè il lavoro di campagna era davvero molto duro.
Così arrivò l'estate del 1888, e sua zia Clotilde che aveva sposato un romano, decise di portarlo in vacanza con lei. Mi raccontò che quando vide Roma per la prima volta rimase a bocca aperta, per lui era qualcosa di maestoso. Così, la zia lo portò al mare, la sua famiglia era benestante, il marito era un ricco imprenditore petrolifero, quindi potete immaginare quanti soldi potesse avere. Quindi dopo una bella vacanza a Santa Marinella, mio padre era pronto a tornare a casa, aveva le lacrime agli occhi, perchè sapeva che il suo ritorno a Bolsena, sarebbe coinciso con il tornare a lavorare il terreno, a risentire tutti quei dolori, che in quel mese di vacanza non aveva, e che avrebbe dovuto dire addio a quegli amici che si era fatto in quell'estate. Le sue mani, erano piene zeppe di calli, e così il 1888-1889 passò tra lavoro duro, pioggia e giornate di dolori assurdi. Mio padre non aveva amici, già sembra strano, ma i suoi genitori quando lo concepirono avevano una età avanzata, se pensiamo che a 50 anni erano già persone anziane, all'età di 40 anni erano già molto avanti con l'età, per pensare di crescere un figlio. Arrivò l'estate 1889, mio padre era super felice, sapeva che da un momento all'altro sarebbe arrivata la zia a portarlo in vacanza, ma quell'estate non si fece viva, quindi il suo sogno di tornare a Roma era svanito, e sconsolato, tra pianti e giornate a guardare a terra, decise di inventarsi un passatempo.
Seduto al tavolo di casa, fece una pallina con un pezzo di carta e mettendosi con l'anulare e il medio sia con la mano destra che la sinistra, cominciò a dire "Eccolo che prende la palla e la passa a... che scocca il tiro... ed è gol... sono in vantaggio". Mio padre aveva in un qual senso inventato un gioco del calcio con le dita, quindi l'estate la passò tra una bella giornata e una partita accesa sul tavolo di casa. Passarono ben 10 anni, nel 1899 all'età di 19 anni, la zia fece capolino, in un inverno triste e desolato, quando trovandosi davanti a mio padre, che era divenuto un uomo, segnato dal lavoro duro dei campi, gli disse "Ho parlato con i tuoi genitori, ti porto a vivere a Roma, con me, non dovrai più lavorare i campi, da domani inizia una nuova vita per te".
Così in una piovosa Bolsena, il papà dopo un lungo abbraccio ai suoi genitori e dopo avergli detto "Vi prometto che vi porterò a Roma in futuro", tra le lacrime, si voltò e partì per Roma. Mi raccontava spesso un aneddoto, proprio nel viaggio verso Roma, a bordo di una Jamais Contente
, prima auto elettrica che superava i 100 km orari, di proprietà dello zio riccone, la zia gli domandò "Ma a te cosa piacerebbe fare nella vita?", lui rispose "Il calciatore", deciso e ferrato. Così dopo il viaggio e il conseguente arrivo a Roma, mio papà mi raccontò di come entrando per la sua prima volta nella casa della zia, già perchè l'anno delle vacanze fu portato direttamente al mare per poi riportarlo a Bolsena, rimase sconvolto, quando gli disse aprendo una porta "Questa sarà la tua stanza". Mi racontava spesso che la stanza era grande quanto la sua casa di Viterbo, che non era piccola, diciamo un 30 metri quadri, enorme, aveva il bagno personale, aveva tutto quel che si poteva avere in quei tempo, dalla vita medio-bassa, al passare al tutto. La mattina aveva il servitore che gli portava la colazione, i vestiti erano molto diversi da quelli che indossava a Bolsena, doveva andare di tutto punto, le persone che frequentavano casa erano per lo più aristocratici pieni zeppi di soldi, lui si sentiva strano, ma gli piaceva vivere in quel contesto, anche se non dava tanta importanza alle persone che giravano per la casa, lui passava a studiare l'italiano con la professoressa privata, oppure uscire e girare la città. Un giorno la zia mentre era intento ad uscire di casa, lo chiamò nella sala riunioni "Vieni Camillo, ti presento il signor Enrico Bonafede (nome di fantasia per privacy), lui detiene una squadra di calcio, gli ho parlato della tua passione, e mi ha detto che sarebbe contento di darti una possibilità". Cosi dopo avergli stretto la mano, per paura d'inciampare nel suo dialetto della 'Tuscia' (dialetto Viterbo, Umbria, Grosseto), preferì non dire oltre che un "Grazie, a presto". La domenica venne invitato a vedere una partita della squadra del signor Bonafede, le piacque molto, la squadra era molto forte, ma la sfida lo galvanizzava più del dovuto. Così il martedì si presentò al suo primo allenamento, non era ben visto dagli altri, una specie di invidia per il nuovo arrivato, ma lui era solare, anzi scherzava, anche se molti facevano finta di nulla o ridevano tanto per. Ne risentiva molto, quando rientrando in casa, si chiudeva nella sua camera e leggeva, montagne di libri, era un appassionato delle storie di avventura, s'immergeva e immaginava tutto quel che leggeva, questo lo distoglieva dalla rabbia del sentirsi messo da parte in quel campo da calcio.
Passarono le settimane, lui continuava a seguire le parole dell'allenatore, mentre i suoi compagni di squadra lo deridevano, per il suo dialetto non proprio consono con il loro, ma tutto passava in secondo piano, lui voleva diventare un calciatore professionista, e nulla lo avrebbe distratto. Arrivò il 30 ottobre 1900, quando alla diramazione delle convocazioni, il suo nome venne inserito nella lista dei convocati. Mi raccontava l'emozione che provò in quell'istante, al solo vedere il suo nome su quel foglio affisso sul muro degli spogliatoi. Ma qualcuno aveva verso di lui l'invidia. Così mi raccontò che quando prese il suo asciugamano dopo aver fatto la doccia, si ritrovò coperto di terra, sotto le risa di chi non aveva gradito la sua convocazione ai loro danni. Cosa fece? Finta di nulla, tornò sotto la doccia e poi dopo essersi vestito uscì con tutta tranquillità. Aveva capito che avrebbe dovuto combattere non solo contro i compagni più forti in campo, ma anche con chi faceva del tutto perchè se ne andasse il prima possibile. 

La domenica era alle porte, dalla panchina vedeva la sua squadra che lottava contro una più abbordabile avversaria, tutto sembrava tranquillo, ma uno scontro sulla fascia sinistra tra il terzino della sua squadra e l'attaccante avversario, riportò un infortunio per il terzino, il tecnico girandosi e avendo poche scelte per la difesa, decise d'inserire mio padre, le sue parole furono: "Ehi, tu, alzati che devi entrare!". Mio padre si alzò dalla panchina, come quello scolaro che viene chiamato alla lavagna, senza sapere cosa gli verrà chiesto. La sua maglia era la numero 14, dopo averla messa dentro i pantaloncini e controllato che tutto fosse al posto giusto, si mise sulla linea della metà campo e dopo che il secondo allenatore alzava il due cartelli per la sostituzione, si fece il segno della croce ed esclamò "Ora o mai più", ed entrò.
Mi disse che in quella gara, venne servito poco, anzi quando chiamava la palla, chi ne era in possesso faceva finta di non vederlo e la passava ad un altro, anche a costo di sbagliare per non servirlo. Era chiaro che non era il benvenuto in quella squadra.
Tutto però cambiò quando l'allenatore dopo la gara entrò nello spogliatoio con un fare minaccioso. Mio padre mi raccontò che volarono oltre a parole grosse anche le bottiglie di vetro per abbeverare i giocatori, con tanto di "Adesso mi avete davvero rotto", mentre il capitano intento a intervenire "Ma noi...", non ebbe il tempo di parlare che venne interrotto ancora una volta dall'allenatore "Ascoltate bene, qui comando io, e se non fate integrare questo ragazzo, io vi caccio via dalla squadra. Che sia ben chiaro, chi sbaglierà d'ora in poi verrà messo alla porta".
L'uscita dallo spogliatoio portò ad un silenzio tombale, mio padre a testa bassa andò sotto la doccia, poi si vestì e mentre stava per uscire, qualcuno alle sue spalle disse "Tanto non gli daremo pace". Mio padre, però fece orecchie da mercante, non riportando nulla all'allenatore, ma continuò per la sua strada.
La notte, tra una sigaretta e l'altra, affacciato al balcone guardava il cielo, nella speranza di avere un gesto positivo, e pensava a come poter convincere quei ragazzi che lui non era lì per rubare il posto a nessuno, ma solo perchè era innamorato del calcio. Così prese la penna stilografica e tentò di buttare giù un discorso, anche se ogni volta, strappava il tutto per ricominciare. Alla fine dopo aver passato una intera notte a scrivere, decise di sedersi sul balcone e si accese un altra sigaretta, per poi addormentarsi in quel freddo inverno proprio sul balcone. Al mattino la zia Clotilde, lo andò a svegliare, era viola dal freddo preso, ma ripeteva "Non avevo sonno e ho passato la notte sul balcone a pensare". La lettera era scritta, ora doveva solo pensare a quale momento sarebbe stato più opportuno per leggerla. Così mentre era dentro lo spogliatoio, prese coraggio e disse "Signori, potrei avere la vostra attenzione per un momento?", pensare che fino a quel giorno aveva fatto scena muta, così mentre tutti lo guardavano con disinvoltura e risatine varie, si mise in un angolo e cominciò a leggere "Non so il perchè da quando mi trovo in questa squadra, qualcuno ha deciso di prendermi di mira, io sono qui sono per puro divertimento, per aiutare una squadra, anzi la mia squadra. Capisco che molti hanno nella loro testa dei pensieri strani, come che sia qui per togliere il posto in campo, ma non è questo il mio intento, anzi vorrei che ci fosse una unione tra noi. Ho spesso immaginato come sarebbe bello poter vincere un trofeo, come il poter festeggiare un gol, una vittoria, ma qui sembra che qualcosa si sia fermato alla mia entrata in questo spogliatoio, nel mio primo allenamento, al mio primo ingresso in campo. Quindi vorrei dire a chi pensa che infastidirmi, sia un modo per farmi andare via, che da oggi mi comporterò al suo stesso modo, se per queste persone sono di troppo, quindi vorrei chiudere questa lettera, con un frase. Nessuno può decidere quel che l'allenatore decide, quindi viviamo in tranquillità e facciamo il bene di questa squadra. Grazie per l'attenzione".
Mi disse che dopo un breve momento di silenzio, il capitano Fiaschini si alzò in piedi e si mise al suo fianco e disse "Da oggi Camillo non sarà più un nostro nemico, ma il nostro compagno di squadra. Chi è dalla sua parte si alzi in piedi". Così pian piano tutti si alzarono in piedi, meno due, Melloni e Broschi, rimasero seduti, proprio quei due sembravano le persone che avevano fatto del tutto per farlo andare via. Ma...Il destino volle che in una gara di campionato, mentre la palla passava su i piedi di Melloni intento a lanciare l'attaccante Purion, ecco che un avversario lo falcia da dietro e si sente un crack, e un urlo agghiacciante, tanto da portare la panchina tutta in piedi. Mio padre non ci pensò poi tanto, corse verso la metà campo, e dopo aver caricato sulle sue spalle, lo portò a bordo campo, poi venne spostato dal secondo allenatore che dopo aver preso una barra di ferro e un un fil di ferro, strinse forte l'uscita dell'osso del perone, tra le grida di Melloni. Finita la partita e tornato a casa si chiuse in camera. Dopo tre giorni, la zia bussando alla sua porta "Camillo, c'è una persona al telefono per te", mio padre si diresse al telefono "Pronto...", dall'altra parte della cornetta "Ciao Camillo sono Giuseppe (Melloni), volevo ringraziarti, per quel che hai fatto, per l'aiuto. Volevo scusarmi per tutto quel che ho fatto in questi mesi, purtroppo nella mia testa la convinzione che tu eri uno che voleva togliermi il posto era troppo forte, così mi sono impuntato su di te. Scusami ancora, spero che in futuro possiamo diventare amici", mio padre rispose "Ma certo, forse è quello che speravo un giorno accadesse. Molto volentieri, buona guarione e vedrai che tornerai più forte di prima. Un abbraccio amico mio". Da quel giorno mio padre divenne un amico di tutti, la sua carriera prese a crescere anno dopo anno. Nella stagione 1904-1905 divenne titolare, era il terzino sinistro con la maglia numero 3. La sua dote migliore era la velocità, mi raccontò che era soprannominato "La freccia di Bolsena", aveva una velocità da centometrista, dice che i 100 metri li faceva in 11 secondi, che paragonato ai tempi di oggi, solo un uomo è sceso sotto i 10 secondi e si tratta di Usain Bolt, l'uomo più veloce di tutti i tempi. Ecco che diviene un idolo dei tifosi, la domenica il suo nome è ben specificato dai tifosi, che lo osannano, la sua maglia la più amata, diviene una icona. Papà Camillo, dai suoi racconti, è ben voluto da tutti, chi lo incontra per le strade romane, gli stringe la mano, lo abbraccia, e le ragazze lo baciano. Tra le tante ragazze conosciute per la sua popolarità trova Virginia, mia madre, di otto anni più giovane, di cui s'innamorò follemente. Mi raccontava che quando non era impegnato con allenamenti e partite, passava la sua giornata fuori casa di mia madre, nella speranza che lei si scorgesse da qualche finestra, fin quando un bel giorno, dalla porta di casa uscì un uomo enorme, di 2 metri, faccia scura e baffo ben arrotolato con un sigaro in bocca, che gli disse "Non sai che questa è proprietà privata? Lei chi è?", così con un pò di timore mio padre gli rispose "Sono Camillo, passavo di qui, e mi sono fermato a guardare la sua casa. Sa che è molto bella e un giorno vorrei averne una proprio così?", ma quell'uomo dal fare minaccioso avvicinandosi esclamò "Che mi venga un colpo! Ma lei è Camillo, il grande terzino della squadra del signor Bonafede? Quale onore...", il mio papà si riprese e sorrise "Si, signore", ma prima che continuasse il racconto, il burbero gli rispose "Arnoldo, mi chiamo Arnoldo, e non signore". Così le strinse la mano, e cominciarono a parlottare di calcio e se avesse preso in considerazione di farsi una famiglia, visto che dopo i vent'anni, uno scapolo a quei tempi era già maturo per tirare su un figlio o più. Mio padre quindi senza pensarci su gli disse "Io sono qui per questo", il nonno Arnoldo lo guardò e gli rispose "Qui...cosa significa?", tra una paura e l'altra, andò diretto al punto "Arnoldo, come dire...eh...vorrei chiederle la mano di sua figlia Virginia", lo sguardo addolcito del nonno tornò subito imbronciato "Lei mi sta chiedendo la mano di mia figlia? E' sicuro di volerla sposare? Io non sono sicuro, voi calciatori avete tante donne che vi corteggiano, non mi convince affatto questa cosa. Ma almeno mia figlia lo sa?", dovette scoperchiare gli altarini "Si Arnoldo, io e sua figlia ci vediamo di nascosto, lo so che ora potrebbe arrabbiarsi, ma le posso giurare che da quando l'ho incontrata la prima volta, in me è scattato qualcosa che non me la fa togliere più dalla testa, io sento di amarla e vorrei passare la mia vita insieme a lei", nonno Arnoldo lo stoppò "Basta giovanotto, basta, che mi fa commuovere con tutto questo miele. Se mia figlia è d'accordo, che la vita sia con voi. Ma prima deve conoscere anche mia moglie Marta e mio figlio Antonio, vieni entra in casa". Così mi raccontò che appena si videro,con mia mamma, scoppiarono in un sorriso, tanto che nonno dopo una concitata e al quanto lunga chiacchiera, disse tutto quel che si erano raccontati e che era d'accordo al loro matrimonio. Fu un giorno di festa, e da quel giorno mio padre divenne uno di famiglia, tanto che decise di far trasferire la sua famiglia d'origine a Roma, gli comprò una casa e ogni fine settimana dopo la partita si ritrovavano tutti insieme. La promessa fatta ai suoi genitori fù mantenuta. Così decise di legare il suo nome alla sua squadra a vita, si sposò con mia madre nel 1910 all'età di 30 anni. Mio padre, ebbe moltissime richieste, anche fuori dall'Italia, ma lui era grato a quei colori, e non li avrebbe mai abbandonati, poi non ci pensava minimamente a lasciare la sua grande famiglia riunita. Nel 1915 fu insignito di fascia di capitano, che portava con onore sul suo braccio sinistro, mi spiegò, che un sinistro difficilmente porta la fascia da capitano a destra, indicandomi un campione come Maradona, che infatti la portava a sinistra anch'egli. Ecco dopo una lunga carriera, nel 1920 all'ultima giornata di campionato, decise di dare l'addio al calcio giocato, aveva ben 40 anni, e un figlio in arrivo, cioè io. La partita terminò con la vittoria per 1-0 con un suo gol su rigore, già gli venne data la possibilità di salutare con una rete. Dopo il gol e tornato a metà campo, fece il giro su se stesso e s'inchinò davanti a tutti i tifosi presenti in quella domenica primaverile, che lo applaudivano.

Mio padre dopo il suo ritiro si dedicò alla famiglia, alla quale non ha mai fatto mancare nulla, la sua popolarità però terminò poco dopo il ritiro, già perchè decise di lasciare la zona ricca della Capitale e trasferirsi in periferia, dove non avrebbe dovuto trovarsi a discutere con gente di un certo livello culturale, a lui dava fastidio l'arroganza dei saputoni, preferiva la gente terra, terra, anche perchè le sue radici non avevano nulla a che fare con gente di classe che si sentiva superiore agli altri. Quindi si comprò un Bar, dove decise di trascorrere la sua vita tra amici e conoscenti, c'era un signore, Natale, che passava e diceva spesso, ricordando i tempi passati "Sulla fascia la freccia di Bolsena, Camillo! Sei un grande!". Lui non amava parlare del suo passato, ma gli piaceva vivere come le persone comuni, e parlare del presente e del futuro. Anche se non nascondo che ogni tanto veniva un suo vecchio compagno di squadra, che gli chiedeva perchè preferiva quella vita a quella del benestante tra i benestanti, lui gli rispondeva sempre "Io, sono diventato io, grazie alla gente, ma non ai ricchi, ma a quelli che ogni giorno mi circondavano in tenera età. Non sono un ricco, sono un normale cittadino, che cerca la sincerità dove la sincerità è di casa". Beh forse non serve spiegarlo, visto che nel dire 'sincerità dove la sincerità è di casa' per mio padre significava: parlare come si mangia, gente che parla in faccia e non dietro, gente pulita. Io e mio padre eravamo molto uniti e quando l'ultimo giorno della sua vita all'età di 80 anni sul suo letto mi disse "La vita, caro Lino, è come un film, è bella e va vissuta, perchè prima o poi finisce". Oggi posso dire che mio padre è stato una grandissima persona, uno che voleva bene a tutti, che non ha mai fatto distinzione tra il benestante e il povero, lui si sedeva a mangiare e parlare con tutti, quando il suo Bar chiuse pochi giorni prima della sua morte, con lui si chiusero i sogni di una giovinezza che porterò con me per il resto della vita.

Un ringraziamento speciale a Lino, che ci ha voluto raccontare tantissimi aneddoti della vita di suo padre Camillo, che fu un grandissimo calciatore, che partendo da Bolsena e dai campi dove lavorava, all'età di 19 anni si trasferì a Roma e iniziò la sua carriera da calciatore, che fu costellata di tantissime soddisfazioni, che fu difficile all'inizio, ma che poi con il tempo divenne la cosa più bella della sua vita "certo dopo il matrimonio con mia madre e la nascita del suo unico figlio" almeno così mi raccontava Lino. Il suo essere un famoso tra le persone comuni dopo l'addio al calcio, non fece di Camillo, che una persona nobile, un ricco dentro e fuori, anche se la sua ricchezza contava poco, tanto da andare via da una zona di soli ricchi, per spostarsi in un posto di gente comune che al mattino andava a lavorare, ed anche se avrebbe potuto vivere di rendita, si aprì un Bar per stare in mezzo a loro, cosa che lui amava, e che quel ricordo dopo la sua scomparsa è rimasta negli occhi di tutti quelli che lo conoscevano.
Grazie Camillo