Non mi soffermerei più di tanto sulla sconfitta contro l’Atalanta, le cui modalità non differiscono molto da tante gare in cui lo spreco a iosa di occasioni da gol ha portato poco o nulla in termini di punti, consentendo alla Juventus di allontanarsi velocemente nel corso di un campionato giocato praticamente da sola. Mi soffermerei invece nel cercare di capire cosa sia potuto succedere a una squadra che da dicembre in poi è andata lentamente in declino.

Una prima parte di stagione positiva in cui il Napoli si piazza fin da subito al secondo posto e per poco non sfiora una un’impresa nel girone di Champions, giocando alla pari con squadre come PSG e Liverpool e andando vicino agli ottavi di finale. Una seconda parte in cui le aspettative e le speranze di una vittoria di un trofeo hanno dovuto fare i conti con una squadra che pian piano si è smarrita, ha smesso di offrire un buon calcio, ha iniziato a commettere errori sia in attacco che in difesa e nei momenti decisivi è crollata. Una spiegazione ho provato a darmela e l’ho maturata proprio mentre guardavo il match contro l’Atalanta: il Napoli non era pronto a vincere. Ieri, dopo diverso tempo, ho rivisto offrire dagli azzurri nuovamente una grande prestazione, al di là del risultato finale. Giro palla veloce, pochi tocchi, continue verticalizzazioni, buon pressing, attacco della profondità con inserimenti vari e tante occasioni create contro una squadra mai facile da affrontare. “Caspita”, dicevo tra me e me. “È tornato a giocare bene, proprio ora che non c’è niente in palio”. E allora lì ho capito.

Lì ho capito che fin quando c’era da giocare liberi dalle pressioni - in Champions si era consapevoli di essere inferiori e in campionato si era certi di arrivare tra le prime 4 e che la Juventus fosse irraggiungibile – tutto filava più o meno bene. Quando poi le aspettative sono aumentate e sia in coppa Italia che in Europa League il Napoli partiva tra le favorite per quanto espresso e la vittoria di un trofeo era diventata cruciale per un giudizio positivo della gestione Ancelotti, ecco che tutto è diventato più difficile. È come se tutti, all’interno dell’ambiente azzurro, dall’allenatore ai giocatori fino ai tifosi, sapessero che questa era la famosa stagione di transizione. È come se mentalmente non si fossero predisposti per vincere qualcosa.
Un anno di tempo, per consentire ad Ancelotti di incidere profondamente in una squadra che dopo tre anni si muoveva e ragionava a memoria; un anno di tempo per capire chi potesse far parte o meno del nuovo progetto azzurro; un anno di pausa dopo l’enorme stress accumulato nel corso dell’ultimo anno sarrista in cui tutti si aspettavano di vincere lo scudetto, sacrificando qualsiasi altra competizione. Un’impreparazione alla vittoria divenuta all’improvviso possibile dopo che in fondo il passaggio da Sarri ad Ancelotti non era stato così traumatico come si potesse pensare.

Del resto, parlando in prima persona, io stesso ho approcciato a quest’annata senza aspettarmi nulla, con la consapevolezza che per costruire qualcosa di importante bisognava concedere il giusto tempo al nuovo tecnico. Con la certezza che senza il sarrismo veniva meno il punto di forza di un gruppo capace di andare oltre i propri limiti. E poi, sono stato indotto a credere che forse, un trofeo al cielo potesse essere alzato. E sempre poi, sono rimasto amareggiato dopo aver visto svanire ogni possibilità di vittoria.
Chissà se gli azzurri si sono trovati nelle mie stesse condizioni, chissà se basta a spiegare il perché di questo regresso che tuttavia ha assicurato un bel secondo posto. Fatto sta che l’anno di transizione sta per finire e nell’anno che verrà tutti si aspetteranno di più, Ancelotti in primis. Ma anche i tifosi dovranno fare la loro parte: vedere il San Paolo semideserto tutto l’anno è davvero desolante.