“Dieu est mort”.
E’ questo il titolo che campeggia sulla prima pagina del quotidiano sportivo l’Equipe all’indomani della scomparsa del Pibe de Oro. Un titolo forte che parte da due assunti. Il primo, e più evidente, è che Diego Armando Maradona è da considerarsi il calciatore più forte di tutti i tempi, rispondendo così al dilemma, di interesse quasi più accademico che calcistico, su chi, tra Maradona e Pelé, sia stato il migliore. Il secondo, più sottile, paragona il senso di smarrimento e vuoto che è seguito alla notizia della morte del talento argentino allo sgomento e al senso di abbandono che provoca la morte di un leader religioso. Sì perché Diego Armando Maradona è stato, nelle sue più alte vette così come nelle sue più infime cadute, il Dio di una religione chiamata Calcio. E questo, lo so, non tutti riescono a concepirlo.

Così come aveva fatto per tutta la sua vita, anche nella morte Diego ha polarizzato reazioni e sentimenti. Da un lato le dimostrazioni di amore e di commozione per le strade di Buenos Aires e di Napoli; i tweet, i post, le parole di chi ne piange la morte e ne ricorda la grandezza. Dall’altro i tweet, i post, le parole di chi, pur riconoscendone il talento calcistico, si interroga o addirittura demonizza l’idea che si possa ergere a mito e icona un calciatore che fuori dal campo si è dimostrato uno come tanti, anzi, in alcuni casi peggiore di tanti.

Io mi schiero con i primi. E’ vero, Maradona non è stato l’unico giocatore di talento. E non è stato neanche l’unico calciatore capace di infiammare i cuori di tanti appassionati nel mondo. Ma allora qual è l’importanza di essere Diego Armando Maradona? Proverò a spiegarlo partendo da un aneddoto personale.

Purtroppo il mio ricordo di Maradona non può avere la verità storica del cronista che lo intervistava a fine gara, né la passione del tifoso che ha avuto la fortuna di ammirarne le prodezze né tantomeno la forza narrativa del racconto che di lui può farne un compagno di squadra che lo ha vissuto in campo. In fondo ero appena nata quando Maradona vinceva il Mondiale di Messico ‘86 e i miei primi ricordi legati al calcio risalgono agli anni in cui purtroppo era già cominciata la parabola discendente del fuoriclasse argentino. Ma c’è un ricordo che, per quanto sfocato, resterà indelebile.
Era l’estate di Italia ’90. Al San Paolo si giocava la semifinale tra Italia e Argentina. Avevo solo 4 anni e di quella sera mi rimasero impressi due fotogrammi: il primo, l’esultanza con tanto di sguardo spiritato del mio idolo Totò Schillaci; il secondo, le mie lacrime di incredulità, non tanto di fronte alla sconfitta dell’Italia, quanto di fronte a quegli italiani che simpatizzavano per l’Argentina del Grande Maradona.
Solo anni dopo sarei riuscita a dare una spiegazione a quell’episodio, ai miei occhi inconcepibile e assurdo. E la spiegazione che mi sono data era che quando si parlava di Diego Armando Maradona non si parlava mai solo di calcio. E in fondo era stato lui ad aver investito il calcio di significati che andavano al di là del calcio stesso. Lui che aveva fatto del pallone il simbolo del riscatto sociale, perché era grazie a quel pallone che aveva strappato se stesso e la sua famiglia alla povertà. Lui che agli scudetti vinti a Napoli attribuiva un significato che andava al di là del successo sportivo: aver battuto le squadre ricche del Nord significava aver ridato dignità alla città di Napoli e a tutto il Sud Italia. E poi ancora Inghilterra-Argentina, quarto di finale dei Mondiali del 1986, a detta di molti la partita che consacrò Diego Armando Maradona. Tuttavia quella fu molto di più di una partita di calcio. Quella fu l’occasione per l’Albiceleste di vendicare la battaglia delle Falkland, persa dagli argentini proprio contro il Regno Unito. Infatti con il beffardo tocco di mano nel primo gol e con il magico tocco di genio nel secondo, Diego sconfisse gli inglesi trascinando l’albiceleste in semifinale e vendicando un’intera nazione.

Diego aveva fatto del campo da calcio il luogo della battaglia sociale, politica e personale. Scendeva in campo per difendere i suoi colori, i suoi valori, il proprio credo, per esorcizzare le proprie paure e per curare le proprie ferite. Il calcio era il suo sangue, come lui stesso amava ripetere, perché nel calcio aveva messo tutto se stesso, senza maschere, senza difese. In questo risiedeva il seme della sua grandezza e forse anche della sua dannazione.

E poi c’era il talento, quello puro. Il talento che smentì ogni legge della fisica piazzando il pallone alle spalle di Tacconi con quella che ancora oggi è chiamata la “punizione impossibile”. Il talento di chi palleggia senza scarpa con un’arancia sul prato verde del “Capozza” per il solo gusto di incantare. Il talento di chi raccoglie la palla a centrocampo e fila verso la porta percorrendo 60 metri in 10 secondi, saltando 5 avversari come fossero birilli e superando il sesto, il portiere, per appoggiare in rete. Il talento di chi immaginò e poi realizzò, dopo aver corso palla al piede per 40 metri, lo scavetto al limite dell’area di rigore di fronte ai 100 mila del Maracanà di Belgrado. Sì, quello stesso talento che aveva scelto di incarnarsi nel corpo di un ragazzino di Villa Fiorito, basso e tarchiatello, con la testa piena di capelli e di sogni.

E’ questa l’importanza di essere Diego Armando Maradona: la sua capacità di incarnare il calcio fatto di talento e significato, il calcio che ispira, esalta, consola e che a volte riesce anche a guarire. Non il calcio dei supereroi, ma quello degli uomini-eroi.
Quindi sì, Dio è morto e il suo popolo lo piange.