Ieri sera, dopo aver gustato la favolosa cena preparata dalla mia mameta per festeggiare l’ottavo compleanno del nostro adorato nipotino, ho concluso la giornata saltando continuamente dal canale TV satellitare 201 a quello 203, estasiato dal livello di gioco della Champions League rispetto a quello misero che ogni week end mi devo sorbire guardando la serie A italiana.
A dire il vero ho dedicato più tempo al match del Bernabeu, un po’ perché a torto davo per scontata una facile vittoria del Bayern contro il Villareal, un po’ perché a Madrid è andata in scena una delle più belle, divertenti, ricche di significato partite dell’anno.

Oscar Wilde, nel 1894, scrisse una commedia teatrale intitolata The Importance of Being Earnest, nella quale l’autore si dilettò tra la parola earnest che in lingua inglese parla di affidabilità, e il nome proprio Ernest, che nell’opera della Londra Vittoriana si contrappone al significato dell’aggettivo risultando oggetto di inganno, di inaffidabilità.
Non credo che in croato Luka o Modric significhino affidabile, non penso che un fonema simile per pronuncia dia l’idea di cosa voglia dire da almeno dieci anni a questa parte avere in campo Luka Modric (ne sanno qualcosa la nazionale croata vice campione del mondo e il Real Madrid con la bacheca piena di Champions League).
La carezza di esterno destro al minuto 80' di una partita che stava per passare alla storia forse per la più grande, inaspettata, clamorosa disfatta casalinga delle Merengues dalla loro nascita ad oggi, passerà invece alla storia per uno dei più grandi colpi di classe, di genio, di affidabilità che lo sport più amato del mondo abbia mai visto.
Ho rivisto una decina di volte quel disegno perfetto, così bello da apparire quasi irreale, impossibile da esistere. Come ha fatto con le gambe stanche dei suoi ormai 36 anni, a dieci minuti dalla fine, sotto 3 a 0 nello stadio più titolato al mondo, contro i campioni d’Europa in carica, come ha fatto a mettere quella palla proprio sullo stinco del compagno di squadra Rodrygo in corsa verso la porta?
Non si porta in finale di un Mondiale una nazione con una popolazione come quella del Piemonte per caso, non si vincono due campionati spagnoli e soprattutto quattro Champions League per caso, non si vince tutto questo da protagonista per fortuna, perché capita, chi lo fa è un uomo fuori dal comune sotto ogni punto di vista, è un atleta affidabile, quello a cui ci si affida quando le cose non vanno, quando tutto sembra perduto, quando serve una magia per far splendere il sole, per far scomparire un orrendo temporale.
Cosa avremmo pensato, detto, scritto di Carlo Ancelotti senza quel colpo da genio del calcio di Luka Modric?
Avremmo urlato che è vecchio, che è passato, che è finito, lo avremmo tutti quanti o quasi riempito di parole di incoraggiamento a smettere, gli avremmo consigliato di lasciare il posto ad un uno più giovane, più aggiornato, più affamato, più in grado di lui di guidare i super campioni che indossano la camiseta blanca, gli avremmo detto: Carletto, è ora di fare il nonno.

Da sempre qui in Italia il primo bersaglio dei tifosi e dei giornalisti quando le cose non vanno sono gli allenatori. Amici interisti nelle scorse settimane hanno pronunciato parole irripetibili nei confronti di Simone Inzaghi, che oltre a non avere Modric, a differenza del tanto osannato predecessore, non ha neanche Lukaku, Hakimi ed Eriksen.
Le partite, i campionati, le coppe, i trofei in generale li vincono i giocatori in campo, quelli affidabili, quelli di cui ci si può sempre fidare, quelli che mettono sempre la gamba, quelli che escono stremati dal prato verde, quelli che nei momenti di disperazione sportiva tirano fuori il coniglio dal cilindro e ti fanno volare (forse) verso la quattordicesima coppa con le orecchie. Gli allenatori, in tutto questo, contano poco o nulla.
L’importanza di chiamarsi Luka Modric...