I tifosi juventini che hanno visto Bettega giocatore e dirigente ricordano sicuramente la fine secolo bianconera di Ancelotti. Primavere costantemente avare di soddisfazioni, nonostante prestazioni da incorniciare. A partire dalla semifinale di ritorno di Champions col Manchester, la quarta consecutiva di quella Juve. Era il 1999, la Juve era orfana di Lippi, esonerato in inverno con tanto di accuse e minacce reciproche, che fecero perdere le staffe in tv anche al navigato avvocato Chiusano. Ancelotti rapidamente tirò su la squadra, priva da mesi di Del Piero, e all'Old Trafford sfoderò una prestazione da brividi contro il Manchester di Ferguson, che solo qualche mese dopo avrebbe completato il primo Treble, o Triplete, della storia recente. Segnò Antonio Conte, il capitano, per l'uno a uno finale al Teatro dei Sogni. Giampiero Mughini, il Signore degli Anelli bianconero, disse di aver riempito due volte il suo bicchiere di whisky in preda ad un raptus di godimento per quel gioco entusiasmante. Interrogato in merito all'opportunità di schierare o meno le prime linee contro la lanciatissima Lazio, per non falsare la corsa scudetto dei biancocelesti col Milan, Mughini si lasciò andare ad una indimenticabile roteante invocazione del giovane Perrotta, allora sconosciuto panchinaro, poi divenuto illustre campione del mondo. E infatti all'Olimpico con la Lazio giocarono le seconde linee bianconere: ma, ironia della sorte, il giovane tornante di riserva di Ancelotti si chiamava Thierry Henry e rovesciò la povera Lazio di Cragnotti per tre gol a uno. Andò molto peggio alla Juve delle prime linee, qualche giorno dopo, nel ritorno col Manchester, nonostante un indemoniato Inzaghi l'avesse portata in venti minuti sul 2-0. Complici anche alcune scelte del tecnico, la Juve si spense improvvisamente, facendosi rimontare dal Manchester di Roy Keane e dei Calipso Boys. Finì tre a due per i Red Devils, mentre Nick "piede caldo" Amoruso vagava ramingo nella deserta metà campo d'attacco di una Juve assolutamente incapace di reagire. Tutta l'epopea juventina di Carletto sarà così: un'entusiasmante cavalcata a metà. Escluso dopo anni dall'Europa, complice un girone di ritorno fallimentare, se la andò a conquistare addirittura con l'Intertoto. Con lui in panchina tornò Del Piero e la squadra ebbe picchi di gioco altissimi. Insieme, purtroppo, ad altrettanto rovinosi rovesci, che alla fine resero tristemente povero il risultato finale.  Tutti questi rovesci li vissi, curiosamente, in giro per l'Italia ed il mondo: ricordo il laziale Simeone svettare di testa in un bar di Villavallelonga, paesino della Marsica; il veronese Cammarata purgare la Juve su un divanetto del Centre Pompidou a Parigi, stracolmo di italiani assetati di Novantesimo Minuto; il perugino Calori lo sentii de relato, dalle grida di disperazione dei tifosi giallorossi in un condominio di Roma; l'anno seguente, il rigore sbagliato da Inzaghi col Lecce e il tiro di Nakata a Torino mi videro invece stramazzare su un morbido tappeto di Templestowe, elegante sobborgo di Melbourne, mentre una giovanissima Ilaria d'Amico conduceva su Rai International "La Giostra del Gol" per gli italiani all'estero. Senza dimenticare la cocente eliminazione dall'Europa League del 2000, quattro a zero col Celta Vigo e Montero espulso che saluta il pubblico con la mano sul pacco in un surreale giro di campo; o l'eliminazione ai gironi di Champions l'anno seguente, ultimi classificati dietro a Deportivo La Coruna, Amburgo e Panathinaikos. Certo l'addio con la Juve fu veramente poco elegante, nella forma più che nella sostanza: "e il modo ancor m'offende" scriveva saggiamente Dante Alighieri.  Non certo volgare come quel vile striscione bianconero che lo accolse a Piacenza "un maiale non può allenare", ma certo dolorosissimo per quell'etichetta di perdente, che lui, alfiere da giocatore della Roma di Liedolm e del Milan di Sacchi, sentiva di non meritare. Il "maiale" fortunatamente ha continuato ad allenare e solo un paio di anni dopo, proprio a Manchester, proprio contro la Juve, si è preso la più beffarda delle rivincite: dirà più tardi Carletto che il rigore vincente di Shevchenko ha sicuramente cambiato la sua carriera. Di lì, la sua casa è diventata l'Europa: poco incisivo in Italia, il Milan di Maldini, Nesta, Cafù, Pirlo, Ambrosini, Serginho, Gattuso, Seedorf, Shevchenko e poi di Kakà, alza al cielo un'altra Champions e un'altra la butta via ai rigori. Poi un lungo girovagare tra i palcoscenici più prestigiosi del calcio: Chelsea, Psg, Real e Bayern. Arrivano la decima a Madrid, che lo rende l'allenatore più vincente di sempre in Champions, e tanti titoli nazionali. Nonostante ciò, i suoi addii sono spesso altrettanto bruschi, proprio come quello vissuto a Torino. Ma Carletto è cresciuto ed è soprattutto un vincente: l'allievo di Sacchi è diventato una delle più belle espressioni del tecnico moderno, riuscendo a coniugare inventiva, organizzazione, risultati e bel gioco. Rifuggendo il più possibile la polemica, Ancelotti ha fatto dell'educazione la cifra espressiva di un uomo per bene, in fondo sempre di provincia, tutto buona forchetta e lavoro. Nonostante sia uno degli allenatori più vincenti e pagati di sempre, Carletto ha mantenuto un'umiltà e un rispetto di fondo, che lo rendono amabile a tutti: giocatori, tifosi, giornalisti e perfino agli avversari. Ha deciso di ripartire da Napoli, senza stravolgere il lavoro di Sarri, ma coinvolgendo tutta la sua rosa in un progetto di medio periodo che potrebbe rivelarsi vincente: supplire con l'organizzazione e la giovane età ai maggiori investimenti delle corazzate del Nord. Ha portato a Napoli nel suo staff anche suo figlio, cosa italianissima e anzi napoletanissima, che era stato uno dei motivi di maggiore frizione con l'ambiente del Bayern Monaco. Soprattutto con Uli Hoeness, uno talmente tedesco da aver educatamente scontato in cella un'intera condanna per evasione fiscale. Ma come ha detto Carletto, sintetizzando mirabilmente la magia della città partenopea, “per capire la bellezza di Napoli dovreste vivere a Londra, a Parigi e a Monaco di Baviera". Allora auguri Mister e ci scusi tanto, noi e il Fato: certo, sarebbe stato bello che Zidane e Davids avessero segnato a Perugia, che Inzaghi avesse segnato quel rigore col Lecce o che Van der Saar avesse parato bene a Torino come ha fatto ad Amsterdam o a Manchester. E che Shevchenko, invece, quel rigore non ce l'avesse mai segnato contro. Ma in fondo è stato bello anche così. Perché nella vita non si vince e non si perde, se si è se stessi fino in fondo.