Il mondo omerico e il mondo del calcio: più lontani di così non si può, diremmo. Due mondi separati da migliaia di anni, ma diversi anche nella loro stessa idea, nel loro stesso fine.
Da una parte un mondo quasi ideale, che raffigura una società altrettanto ideale, almeno nell’immaginario collettivo della Grecia arcaica, che vedeva nel mondo omerico una rappresentazione di una società risalente ad almeno 5 secoli prima. Un’eternità, in un’epoca in un lo studio della storia equivaleva al racconto di un mito. Lo stesso Omero, decantato primo cantore dell’Iliade e dell’Odissea, non si sa se sia esistito o meno.
Dall’altra parte troviamo il mondo dello sport, che in questo caso si “specializza” nel calcio, probabilmente lo sport più seguito al mondo. E forse anche quello più amato. E paradossalmente il più “antico” e meschino nelle dinamiche, che spesso escono dallo sport per prendere le uscite più disparate: dalla deportazione di talenti sudamericani ed africani all’imposizione con la forza di determinate riforme, il mondo del calcio ha assunto per suo indiscutibile dogma (sono pleonastico, lo so) la legge del più forte, o almeno così ci sembra, benché ognuno di noi si sforzi di vedere ancora la bellezza intrinseca del calcio. Tutti noi, in quanto esseri umani, vogliamo vedere la bellezza, la romanticità di uno sport che ci ha fatti crescere sognando le vittorie della nostra squadra del cuore.

Poi vedere ogni anno una realtà come l’Ajax, o come il Leicester, rinnova un’altra volta il nostro amore per il calcio, ferito e mutilato da tutte le vittorie ingiuste di squadre più forti e ricche, che non rappresentano veramente i valori del calcio.
Nel calcio di oggi cos’è fondamentale per un club di alto livello? Vincere, senza se e senza ma. Vincere, dominare sugli altri club, dominare non sempre con il gioco, ma anche con i soldi, con lo stesso potere politico, finanziario, sociale. Per i calciatori cos’è importante? Tenere alto il proprio “onore”, non cadere mai nel politicamente scorretto: altrimenti si rischia l’ostracismo sociale, che porta il suddetto calciatore ad uscire dal “circolo dei VIP”.

Nel mondo omerico cos’era fondamentale? Vincere ogni duello, senza se e senza ma. Fiondarsi sempre in battaglia, sprezzanti del pericolo, rispettando però i vincoli di ospitalità, come dimostra lo scambio di doni di Glauco e Diomede. E cos’era importante per il singolo, che poi rappresentava l’intera schiera di soldati? L’onore, che andava mantenuto oltre ogni ragionevole pensiero. Anche nell’Odissea, un poema sicuramente più “evoluto” dal punto di vista contenutistico, l’onore rappresenta una prerogativa fondamentale dell’eroe, una caratteristica per cui bisogna lottare anche contro i proprio alleati.
Somiglianze casuali o meccanismi inconsci e consci della mentalità occidentale? Difficile a pensarsi, quasi impossibile a dirsi. Vediamo quindi alcuni concetti del mondo omerico che potrebbero o meno adattarsi al calcio di oggi.

La menis o ira
La prima parola dell’Iliade e anche la più significativa: il filo conduttore di tutta la vicenda che si svolge sotto le mura della Rocca di Priamo apparentemente non sembra aver legami con il mondo di oggi, se non in qualche civiltà ancora ancorata alle abitudini di un tempo, o magari in un contesto bellico. E infatti l’ira nel mondo del calcio è bollata come “cattiva”, non senza tutti i torti. Anche se, a mio modo di vedere, questo concetto tanto nobile sprofonda spesso in una banalissimo politically correct, che ok, non bisogna mai offendersi con nessuno e dare l’esempio ai giovani che seguono lo sport, ma snatura in maniera irreversibile la personalità di uno sportivo, che spesso non ha altro modo per esprimersi che attraverso la rabbia, l’ira, un’emozione base dell’animo umano. Un’emozione che in personaggi come Ibrahimovic e Cantona trova la sua perfetta personificazione: e per l’appunto questi personaggi sono spesso visti con malocchio, nonostante il loro talento fuori dal comune, proprio perché sono stati due giocatori che non hanno mai filtrato (o difficilmente) le proprie emozioni, andando contro quella che è la morale comune dello sport. E in questo caso, è più importante non snaturare se stessi o seguire quella che è la volontà degli altri? La risposta sembra ovvia, ma purtroppo non lo è. In particolare quando subentra l’ira, che macchia indelebilmente le carriere dei giocatori. Anche Zidane, purtroppo, è famoso per la sua testate, e anche Cantona per il suo calcio volante al tifoso. Eppure sono stati grandissimi talenti, che l’hanno fatto per difendere quello che può essere considerato il proprio “onore”. E detto così sembra quasi animalesco, ma quanti di noi non avrebbero reagito come il centrocampista francese sentendosi insultare la propria sorella?

L’aretè o eccellenza
E qua bisogna fare un discorso tanto ampio quanto è ampia la sfumatura di significati che assume la parola aretè nel contesto omerico, per non parlare del suo radicale cambiamento in quello esiodeo: l’aretè, principalmente nell’Iliade ma anche nell’Odissea, è da intendersi come “eccellenza” militare e rappresenta il valore più importante della morale eroica, che l’eroe è obbligato a onorare non solo nei confronti dei nemici, ma anche nei confronti dei suoi stessi soldati e soprattutto dei suoi compagni di pari grado, gli altri eroi. Chi dimostra di non avere aretè, perde anche la timè, l’onore (che verrà trattata in un altro paragrafo). Al contrario, chi dimostra aretè, lottando con sprezzo della morte, non verrà dimenticato per secoli e la sua memoria sarà sempre chiara nelle menti di tutte le genti. Lo dimostra l’esempio di Achille, benché sia un eroe dalle mille sfaccettature, che a tratti sembra perdere l’aretè, per poi riconquistarla combattendo come un leone sul campo.

Nel mondo del calcio questa concezione apparentemente antica è presente e condiziona la crescita del calciatore sin dalla tenere età: ogni allenatore cerca di tirare fuori da un ragazzino il meglio delle sue potenzialità, perché quello è il suo lavoro e perché sarebbe un torto al calcio non tirare fuori tutto il talento di un giocatore. Ma quando ci si affaccia al professionismo, questo viene elevato al massimo: il calciatore diventa portatore di determinati valori e deve continuamente lavorare per migliorarsi e per evitare un triste oblio, che lo porterebbe fuori da quel circolo esclusivo in cui entrano solo i migliori. Detta così, l’eccellenza e il suo raggiungimento sembrano quasi un “obbligo” imposto e apparentemente raggiungibile per chiunque: purtroppo (o per fortuna), non è così. Chi per natura è predisposto a migliorarsi per eccellere ha molte più possibilità di eccellere rispetto a chi non è predisposto per natura. È semplicemente una questione psicologica.

Prendiamo ad esempio Ibrahimovic: un giocatore fenomenale. Uno vero fuoriclasse, fra i migliori al mondo del suo ruolo e fra i migliori della storia. Prendiamo come contro-esempio Messi, un altro fuoriclasse. Due giocatori molto diversi, non tanto nel fisico, quanto nella mentalità: Messi è la rappresentazione lampante del giocatore di talento che sfrutta al massimo il suo talento, senza attingere a nient’altro. Ibrahimovic, invece, dispone sì di un talento immenso (ma non paragonabile a quello dell’argentino), ma è diventato il giocatore che tutti ammiriamo proprio per il suo carattere, scontroso e sempre alla ricerca dell’eccellenza. Se dovessimo paragonarlo ad un eroe iliaco, lo paragoneremmo sicuramente ad Achille: irascibile, violento, ma capace anche di slanci emotivi che denotano una certa profondità d’anima. Ma, in fondo, Ibra rimane un leone.

La timè o onore
La timè è un valore strettamente connesso con l’aretè: possiamo dire, per semplificare al massimo, che la timè sia una derivazione diretta dell’aretè, quindi di un comportamento valoroso. Eppure, nonostante possa essere considerata solo una conseguenza, nella cultura greca arcaica assume un’importanza fondamentale, pari e a tratti superiore a quella dell’aretè. Coloro a cui non viene riconosciuto l’onore sono spesso “ostracizzati” dalla loro società d’appartenenza e possono perdere tutto quello che avevano guadagnato in precedenza, a partire dal loro stesso potere. Quindi la timè dipende solo ed esclusivamente dalla visione che gli altri hanno dell’eroe, poiché nell’opera omerica non troviamo una vera e propria rappresentazione dei caratteri individuali, che sono invece dei caratteri fortemente condizionati dal pensiero comune: in questo senso, la massa assume un potere enorme, potendo di fatto decretare l’onore, e quindi il potere, di un eroe. Questo tipo di cultura, tanto distante (ma nemmeno troppo) dalla nostra mentalità, oggi viene chiamato “cultura della vergogna”, ovvero una cultura in cui prima di tutto viene l’onore, decretato appunto dal pensiero altrui. Quando questo onore cessa di esistere, non sussiste più una motivazione valida per proseguire a vivere e si ricorre al suicidio.

Nel mondo del calcio, ovviamente, non si ricorre al suicidio per “guarire la ferita dell’onore”, perché, prima di tutto, di ferita non si tratta: la società moderna ha imparato infatti ad usare le parole come armi, accantonando quelle vere. Ma non è detto che le parole facciano meno male rispetto alle armi, perché possono portare a credere a tutti una determinata cosa riguardo ad un determinato individuo, toccando i dolenti tasti del politically correct: prendiamo l’esempio di Josip Brekalo, promettente attaccante croato del Wolfsburg. La sua squadra, nel 2018, aveva deciso di far indossare a tutti i capitani di tutte le formazioni, dalle giovanili alla prima squadra, una fascia di capitano speciale, di colore arcobaleno, che serviva a dimostrare la vicinanza della società contro le persone discriminate per il loro orientamento sessuale e per la loro provenienza. Brekalo, tuttavia, si era sin da subito rifiutato di indossarlo, dicendo che “non voleva rappresentare idee altrui, pur rispettando tutti”. E fin qui, si può dire, una dichiarazione ragionevole di un ragazzo ragionevole. Eppure da quella dichiarazione scaturirono articoli su articoli in cui lo si accusava di omofobia, di un comportamento inaccettabile(e non dico che non lo fosse, ma fino ad un certo punto). Di fatto si era leso il suo “onore” di calciatore e prima di tutto di persona, ledendo anche la sua libertà di parola e di pensiero. Brekalo non aveva detto nulla di sbagliato, semplicemente aveva affermato, da fervente cristiano, che quella fascia non la voleva indossare. E l’aveva detto con garbo.

Da quel momento la carriera di Josip non ha avuto la piega che tutti si aspettavano, e quello che era considerato uno dei migliori talenti del calcio croato non si è ancora affermato nel calcio che conta. Tutto questo per una dichiarazione non politically correct strumentalizzata in modo abbastanza meschino, che ne ha leso la timè, facendogli anche perdere l’aretè (ovviamente modernizzando i rispettivi significati).

Il geras o bottino (o premio)
Quando nell’Iliade Briseide (il geras) viene tolta ad Achille, viene lesa la sua timè, che aveva guadagnato lottando con grandiosa aretè. Agamennone, facendo così, si macchia di ubris, benché anche lui avesse una motivazione per farlo, ed era perché il suo geras, Criseide, gli era stato tolto per placare il dio Apollo. Di fatto, nessuno dei due ha una vera colpa come nessuno dei due è veramente colpevole, perché entrambi possiedono delle motivazione valide (per l’epoca) che giustificano il loro comportamento. Il motivo, però, è uno solo: il geras e la sua sottrazione.

E noi, tifosi focosi, quando vediamo la nostra squadra del cuore perdere pur avendo (ai nostri occhi) meritato di vincere, ci lanciamo nelle peggiori orazioni contro la squadra avversaria, definendola lurida ladra, usando spesso termini per diversi che però lascio a contesti altrettanto diversi. Siamo tanto diversi, in fondo, rispetto agli eroi greci? Ovviamente, si parla sempre per similitudini “teoriche”, di sicuro non pratiche, perché a nessuno verrebbe in mente di scannare il proprio amico interista per l’Inter ha vinto il derby demeritando. Eppure spesso succede.
E succederà sempre, perché nella nostra mente di occidentali sono radicate delle caratteristiche antropologiche che fanno letteralmente parte del nostro inconscio e che quindi non possono essere controllate.


Federicoz




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