Il ritorno di Ibrahimovic al Milan, nonostante abbia giocato appena poco meno di 130 minuti, ha già sortito i suoi effetti. Una storia stana quella di Ibrahimovic al Milan. Da giocatore insostituibile e vero baluardo in campo, a unico giocatore in grado di fare cassa e quindi sacrificabile, quasi dieci anni fa. Poi, in maniera inaspettata, ove si credeva che la strada da seguire fosse quella della gioventù, eccolo tornare con le vesti di salvatore. Se ben pensiamo, la storia del Milan, quella vera, pare essersi fermata infatti a quella sessione di mercato estivo di quasi dieci anni fa. Al tempo era in corso l’europeo in Ucraina e Polonia, che l’Italia terminò al secondo posto perdendo la finale contro la Spagna. In una conferenza stampa fatta da Casa Azzurri Antonio Cassano, al tempo compagno rossonero di Zlatan, accolse male la notizia di probabile cessione dello svedese. E, guarda caso, nemmeno un mese più tardi, pensò bene di lasciare anche lui la barca che stava affondando, trasferendosi sull’altra sponda del naviglio. Da quel momento cambiò tutto. Il Milan cominciò a fare fatica in ogni reparto. I tempi dei grandi acquisti alla Galliani erano finiti, mentre la classifica si faceva ogni anno sempre più gelida. Ben presto il Milan avrebbe perso ogni mira non solo per il titolo, ma addirittura per la qualificazione alla Champions League, da sempre considerata la casa del diavolo. Ovvio, tutto ciò non è può essere addebitabile esclusivamente alla cessione di Ibrahimovic. Ciò nonostante, è altrettanto chiaro come il suo doloroso addio fu la miccia che diede fuoco a un’intera polveriera. Per quanto le vittorie siano risultati di squadra, un singolo uomo può fare la differenza. E questo in diversi ambiti. Guarda caso, mi viene in mente una storia molto simile ambientata nel mondo aziendale.

Questa storia parte con un imprenditore poco più che ventenne, molto scaltro e acculturato, che decise di fondare un’azienda innovativa. Sebbene considerato da tutti geniale, egli nascondeva dei lati di sé stesso che, a volte, lo rendevano indigesto a molti dei suoi collaboratori. Dove alcuni lo definivano esclusivamente come burbero, altri lo disegnavano come un vero e proprio despota. Tanto che, per quanto le cose andassero abbastanza bene per l’azienda, alla fine i suoi soci decisero di metterlo ai margini della società, togliendogli buona parte dei suoi poteri. In altre parole, il giovane imprenditore fu cacciato dalla medesima azienda che lui stesso aveva fondato. Potrà sembrare incredibile, ma di casi simili ve ne sono stati diversi nel mondo dell’economia aziendale. Fu così dunque che, dopo quella decisione sofferta, le loro strade si separarono. Le cose però non andarono come i suoi detrattori avevano prospettato. I risultati tanto attesi non giunsero mai. Dove molti si aspettavano vendite da capogiro, in molte linee di mercato giungevano invece dati assai deludenti e preoccupanti. Il brand cominciò ben presto a risentirne, tanto che in molte sedute di borsa il loro titolo fu bloccato per evitare ingenti perdite di capitale. Passati più di dieci anni, il rischio fallimento era oramai alle porte. Giunse allora il momento di prendere una decisione. Se quel giovane ambizioso e dispotico era riuscito a creare un’azienda importante, forse era anche in grado di salvarla dal baratro. Fu allora che, sebbene con molti dubbi e a distanza di un oltre un decennio, il fondatore venne richiamato, nella speranza che la sua genialità potesse salvare l’intera situazione. Costui accettò senza riserva, ma da subito tornò a dettare leggi e filosofie difficili da digerire. Come soluzione ai problemi aziendali infatti, egli promosse un’idea a dir poco ortodossa, se non addirittura paradossale. “Facciamo troppe cose e così facendo non ne facciamo una bene. Non c’è altra soluzione che tagliare buona parte delle linee produttive”. In altre parole, per poter tornare grandi, la sua soluzione proponeva il taglio di molti prodotti dal listino di vendita. Tradotto in termini di bilancio, ciò significava un vistoso calo di fatturato nel breve periodo. Ciò nonostante, oramai ben oltre la soglia della disperazione, i suoi collaboratori accettarono questa sua folle idea e si misero al lavoro. Il concetto che da quel momento divenne chiaro a tutti era di fondo: “Facciamo poche cose, quelle che sappiamo fare veramente bene ed eliminiamo tutto il resto. I risultati arriveranno col tempo”. In tre parole: Less is More (meno è più). 

Se mettessimo a confronto la recente storia di Ibrahimovic, con quella del giovane e dispotico imprenditore, molti sarebbero i punti di incontro tra le due. Sebbene con fare più umile del passato, Ibrahimovic si da subito imposto all’interno dello spogliatoio. Le sue idee hanno influenzato, per non dire soverchiato, quelle del suo stesso allenatore, nonché un’intera filosofia di gioco che il Milan portava avanti da oltre un lustro. Il 4-3-3, a cui nessun allenatore aveva osato rinunciare nelle ultime stagione, come per magia è stato spodestato dal 4-4-2 imposto da Ibrahimovic. Un cambio di rotta importante, che ha portato Pioli a rinunciare alle continue rincorse sulla fascia da parte di Suso, oramai fuori schema, e di Calhanoglu. Dove prima si cercava di fare più azioni offensive possibili, sperando che da un cross laterale potesse nascere qualcosa, ora le cose sono radicalmente cambiate. Svariare non serve infatti a nulla, se non ciò non porta a creare chiare occasioni da rete. Meglio fare poche cose, ma il più possibile improntate alla realizzazione. E questo è proprio quello che si è visto in Cagliari-Milan. Rispetto al recente passato, alla Sardegna Arena il Milan ha fatto meno possesso, meno passaggi e decimato il numero di cross. Dove prima costruiva oltre venti azioni, contro il Cagliari ne ha creato a stento una decina. Risultato: 

    • 2 gol all’attivo + 1 annullato per fuorigioco millimetrico
    • 90% delle azioni tramutate in un tiro nello specchio
    • rischi nella propria area ridotti all’osso

In altre parole, riducendo il numero di azioni offensive, il Milan di Ibrahimovic è diventato molto più efficace, nonché efficiente. Il tutto seguendo un’idea molto semplice, che il nuovo arrivato (nonché tornato) ha imposto dal primo giorno: Less is more. Fare poche cose, ma farle bene. Dove porterà il Milan tutto ciò, è troppo presto per dirlo. C’è un intero girone di ritorno da giocare e le incognite sono ancora molte. 

C’è da dire che, seguendo a suo modo la medesima filosofia, quell’azienda di cui vi ho parlato trovò nuovamente la strada del successo. Grazie all’idea di eliminare il superfluo, perpetrata dal suo amato-odiato fondatore, essa divenne in pochi anni leader nel suo settore di mercato. Ad oggi, essa fa infatti miliardi di fatturato e il suo brand è noto in tutto il mondo. E, sebbene il suo fondatore sia scomparso prematuramente, la sua azienda si basa ancora solidamente su questa filosofia. Fare poche cose, ma farle bene. Less is more. Medesimo credo che Zlatan Ibrahimovic, oltre alla sua esperienza e indubbia tecnica, ha portato con sé, sin dal primo istante in cui è sbarcato a Linate, qualche settimana fa. Il credo con cui, in ben altro settore, un grande e poco ortodosso ometto diede vita a un mito, così come oggi egli stesso viene spesso ricordato. Quell’uomo si chiamava Steve Jobs e la sua azienda, che fondò prima e salvò poi, è la Apple. Come dice la Bibbia? Dalle stalle alle stelle?

“Come creo i miei capolavori? Semplicissimo. Mi metto di fronte a un blocco di marmo e tolgo tutto quello che è superfluo.” - Henry Moore

Un abbraccio.

Novak