Torino. Anno 1942. La guerra aveva ormai stabilito dimora fissa nei cuori agitati, preoccupati, tumultuosi di quella povera gente che viveva con l’acqua alla gola, in apprensione per i propri parenti, partiti verso territori sconosciuti da cui, molto probabilmente, non sarebbero più tornati. L’Italia non era più un Paese, Torino non più una città. Quell’incessante pensiero di morte non faceva altro che annebbiare la città che, pian piano, si stava avviando ad un lungo e sofferente calvario. Case, monumenti, edifici pubblici e fabbriche furono bombardate. Non era rimasto più niente, come se un uragano avesse spazzato via tutto. I torinesi perdevano la casa, il lavoro e anche il sapore di una vita felice che, visto il periodo, vista la situazione, stava svanendo. Non c’era animo che potesse tirare su il morale, non c’era distrazione che potesse efficacemente distrarre. Anche il calcio non era più lo stesso. La gente non voleva andare allo stadio, sapeva, a malincuore, che anche quello era diventato un luogo pericoloso. Un calcio così non s’era mai visto prima. Uno sport così non s’era mai assaporato. Rimanevano solo 22 giocatori che rincorrevano una palla, senza emozione, senza divertimento. La guerra stava portando via anche la bellezza delle piccole cose, dei piccoli gesti. Però, è nella tempesta che gli uomini valorosi dimostrano tutta la loro forza, tutta la loro tenacia e vanno avanti, senza curarsi di ciò che succede intorno ad essi. Quegli uomini indossavano una maglia granata, lottavano sotto il segno del Toro. Erano gli Eroi del Grande Torino! Quei ragazzi, capitanati da Valentino Mazzola, erano i paladini della giustizia, affamati lottatori, pronti ad ogni possibile evenienza. Nonostante la città di Torino fosse in lacrime, distrutta dalla guerra, i granata si armarono di passione e andarono a giocarsi ogni singola partita come se fosse una finale. Quegli uomini, quelle leggende vinsero il campionato con 44 punti, ad una lunghezza in più rispetto al Livorno, portando a casa uno scudetto conquistato coi denti, sudato fino all’ultima partita, meritato. Torino però, viveva uno strazio. La maggior parte dei cittadini abbandonò la città trasferendosi in campagna alla disperata ricerca della felicità, o meglio, della tranquillità. I pianti dei neonati affamati, le donne dannatamente preoccupate per i propri mariti, gli anziani terrorizzati. La guerra non stava solo polverizzando vite umane, ma stava anche cavando gli occhi della gente, disperata, senza una via di scampo costretta a convivere con una paura soffocante, tagliente. Neanche il calcio riusciva a sanare quelle ferite, nemmeno le mitiche gesta degli eroi del Grande Torino. Il conflitto mondiale andava sempre peggio per l’Asse, l’esercito italotedesco fu ripetutamente sconfitto dalle forze alleate e l’Italia, sempre più in conflitto con se stessa, stava per deragliare. Torino era in rotta con il regime fascista, i torinesi diedero il via agli scioperi, conosciuti come scioperi del ’43, volti a paralizzare l’economia italiana. Il caos dilagava, tutto era diventato incontrollabile, irrefrenabile. Le proteste, i continui bombardamenti, le strazianti grida provenienti dalla città alimentavano i dissidi. Tra morti e macerie, a Torino si formarono i primi gruppi di partigiani. Uomini, donne, ragazzi, antifascisti si riunivano nelle piazze per combattere un nemico molto potente: Hitler. Alcune formazioni tedesche giunsero nel nord Italia e occuparono tutte le grandi città, tra cui Torino. L’incubo per i cittadini non era finito, il disordine e il timore s’intensificavano. I torinesi stavano vivendo un dramma indescrivibile, i tedeschi imposero il proprio domino nell’Italia settentrionale, mentre gli angloamericani, dopo lo sbarco in Sicilia, stavano pian piano risalendo lo stivale. Il faccia a faccia era alle porte. Molti partigiani furono uccisi, altri torturati; antifascisti, ebrei, zingari, omosessuali furono rastrellati e condotti ad Auschwitz. L’orrore era negli occhi di tutti, la gente aveva dimenticato il significato dell’amore.
La guerra era il presente, il futuro era incerto.
I torinesi erano sfiancati ma, allo stesso tempo, desiderosi di strappare la città dalle grinfie nazifasciste. Trascorrevano giornate, interminabili giornate, ma la guerra…quella sembrava non finisse più. Non c’erano pause, non c’erano tregue. C’erano solo cadaveri bianchi, soldati, partigiani, angoscia reprimente. Nel 1945 partirono le rivolte. Uomini che combattevano come se non ci fosse un domani, attacchi e contrattacchi.
Era il 25 aprile 1945. L’Italia fu liberata, Torino cacciò nazifascisti che solo morte e terrore avevano portato. La guerra era finita! Il dopoguerra però, se da un lato aveva portato pace, serenità, senso di liberazione, dall’altro aveva restituito un’Italia politicamente instabile, povera, divisa, confusa.
Ma dopo la pioggia, spuntò l’arcobaleno. Col passare del tempo, tutto tornò alla normalità. Il calcio era finalmente tornato, il Grande Torino, dimenticato qualche anno addietro, aveva fatto il suo ritorno. La squadra granata completò degli acquisti importantissimi, il mondo del pallone si preparava ad accogliere nuovamente lo spettacolo. Il Torino seppe cavalcare, in maniera a dir poco strepitosa, le onde; incantò il popolo italiano a suon di gol, deliziò il mondo intero con la sua straordinaria organizzazione tattica. Il calcio italiano, prima di allora, non aveva mai assistito a tanta magnificenza e il Grande Torino, quel Grande Torino, non poteva essere fermato. Il fruttuoso cammino dei ragazzi di Novo però, fu interrotto da un’altra big dell’epoca: lo Spezia. I bianconeri, nello spareggio decisivo, riuscirono ad avere la meglio sul Torino che, per quell’anno, dovette rinunciare al titolo.

Anno 1946. Il 1946 fu l’anno della svolta. L’Italia, frammentata in diverse fazioni politiche, si avviava al referendum istituzionale che, per la prima volta nella storia del nostro Paese, garantì a tutti i cittadini il diritto di voto che proclamò il definitivo passaggio dalla monarchia alla repubblica. Il Torino, d’altro canto, era già a metà stagione. I granata furono condotti alla gloria da Mazzola, Loik, Ferraris II e Gabetto, instancabili guerrieri che, partita dopo partita, mettevano a repentaglio tutte le avversarie. Non c’era compagine che tenesse, non c’era ingranaggio che non funzionasse. Il Torino sferrava i suoi poderosi attacchi, un’armata invincibile, nessuno riusciva a fermarla. Nel girone di ritorno, fu battaglia a campo aperto tra Torino e Juventus, ma, nonostante un grandissimo finale di stagione, i bianconeri dovettero mollare la presa per primi. Il Torino, il Grande Torino, conquistò lo scudetto e si prese la scena internazionale. Il club granata era sull’olimpo del calcio, una rivoluzione che, attraverso i suoi eroi post-apocalittici, ha stravolto il calcio imponendo il vianema, uno stile di gioco caratteristico dell’Italia, prima dell’introduzione del catenaccio. La stagione successiva aveva dato garanzie al Toro, accolse uno spumeggiante Mazzola. Egli era formidabile, uno dei migliori numero 10 della storia, un rapace d’area che sfornava prestazioni imponenti, al limite dell’immaginabile. In quella stagione fu lui l’assoluto trascinatore granata che, con 29 centri, si aggiudicò il titolo di capocannoniere e vinse l’ennesimo scudetto con la maglia del Torino. La gente lo ammirava, lo acclamava, lo osannava; il suo modo di giocare era talmente abbagliante tale da accecare le squadre avversarie; emanava un potentissimo fascio di luce; Valentino Mazzola era unico, insostituibile. Il Torino stava pian piano diventando la piazza più importante, un’indefessa macchina da guerra e il popolo granata era il più brillante, il più vivace, il più carismatico. Non ce n’era per nessuno! Il calcio italiano era Torino, l’Italia era Torino, tutto il resto era solo sproloquio.

L’annata 1947-48 fu magnifica, uno strumento di conferma dell’impeccabile maestosità della squadra granata. I campioni in carica non soltanto vincevano, ma riuscivano anche a perfezionare diligentemente i loro meccanismi di gioco, quelli che li avevano presentati al mondo intero come maestri di calcio. La loro assordante ed ineluttabile passione per quei colori li aveva resi i beniamini di tutta Italia, la dimostrazione che il calcio va ben oltre i classici ideali di sport. Il calcio è molto di più. Quel 10-0 ai danni dell’Alessandria, quel 7-1 contro la Roma, quel 6-0 nei confronti della Triestina e i 5 gol rifilati all’Inter sono solo alcune delle testimonianze del Grande Torino che, mai come in quella stagione, polverizzò senza pietà le formazioni nemiche. Indovinate chi vinse il campionato? Già, nuovamente il Torino. Era una squadra d’altri tempi, per le strade di Torino si festeggiava, si brindava. La guerra era passata, quasi fosse terminata cent’anni prima, Torino era in festa. In ogni via, in ogni casa, finalmente era tornato un clima di armonia che l’Italia non ricordava più. “A-i-è nen ‘d pi bel che ‘na facia cuntenta”. Questo è uno dei proverbi più belli di Torino, uno di quelli più significativi, che riportano a ben più gioiosi momenti. Non c’è niente di più bello di una faccia contenta, l’inebriante significato di questo proverbio torinese risiede nella felicità, la sconfinata felicità, che dovrebbe vivere in ognuno di noi, senza mai traslocare, senza mai abbandonarci. Ed il Grande Torino rappresentava un’inesauribile fonte di assoluta felicità per i torinesi. Uno spettacolo destinato a non tramontare mai.

Anno 1949. Il Torino veniva da un inizio di stagione da favola, i granata, puntualmente, scendevano in campo determinati, agguerriti e lottavano su ogni palla. Nel girone di ritorno, lo spartito non cambiò. Il Grande Torino era in lizza per diventare la squadra più forte al mondo, il popolo granata viveva ormai una situazione paradisiaca, splendente. Mancava poco, pochissimo alla fine del campionato. Quattro partite separavano Torino e il Torino dalla sbornia. Lo scudetto era ad un passo. La situazione in casa granata era tranquilla e, nonostante le quattro partite ancora da giocare, il Toro volò in Portogallo per disputare un’amichevole contro il Benfica per celebrare l’addio al calcio giocato della loro bandiera, del loro capitano: Francisco Ferreira. Era il 3 maggio 1949. La partita fu, sin dal principio, tosta con entrambe le squadre propense a spingere per trovare la via del gol. Il Torino, dopo nemmeno 600’’ dal fischio d’inizio, si portò in vantaggio. Dopo il gol granata, come se fosse scattata una scintilla, la partita si accese improvvisamente; sia il Torino che il Benfica, presi da non so quale tipo di frenesia, partirono all’arrembaggio come se non ci fosse un domani e infuocarono una partita di per sé infuocata. I lusitani ribaltarono tutto portandosi sul 3-1, ma i granata accorciarono le distanze poco dopo. Attimi di confusione. La partita aveva superato ogni limite della ragione tanto da non sembrare più un’amichevole. Il Benfica, seppur con qualche difficoltà, rifilò il quarto gol agli ospiti e il Torino, senza perdere altro tempo, portò il risultato sul 4-3. Al terzo gol granata seguì una lunga carrellata di trame pericolose per entrambe le squadre, ma allo scoccare del 90’ di gioco, l’arbitro chiuse la partita. Il Benfica era riuscito nell’impresa di battere il Grande Torino, una delle squadre più forti al mondo, ma, in fin dei conti, si trattava pur sempre di una partita amichevole giocata per onorare la grande e prestigiosa carriera di Ferreira. Poco importa del risultato. La giornata successiva, il 4 maggio 1949, i granata salirono su un aereo diretto a Torino. Nonostante la sconfitta, l’ambiente era sereno al contrario di quella nebbiosa e fredda giornata di primavera inoltrata. Il tempo in Italia non prevedeva nulla di buono. L’aereo iniziò a perdere quota. Torino era vicina. La nebbia s’infittiva. L’aereo si preparava all’atterraggio. Improvvisamente, una gelida ombra oscura penetrò nell’aereo. Stava precipitando, l’ansia era sempre più crescente. La paura si addensava, le brutte emozioni colpirono bruscamente i cuori granata. Un barlume di luce si spense, qualcosa dentro di noi crollò. Non sapevamo cosa, non sapevamo come, ma lo avevamo sentito. Quei momenti di ansia pestifera ci stavano disintegrando, i brividi lungo la schiena, la rabbia ci assaliva. Un castello, un castello pieno d’amore era crollato. Quei pensieri negativi si tramutarono in disperazione quando scoprimmo che l’aereo s’era schiantato. Quell’istante, quel maledetto istante, fu fatale per ognuno di noi. Per chi c’era, per chi l’ha visto, per chi, come me, non era ancora nato. Il calcio, noi tifosi, noi esseri umani in quanto tali avevamo subito un danno irreparabile a cui non c’era rimedio, avevamo perso una parte di noi.
Era il 4 maggio 1949 e in quella data, se ne andavano gli Eroi del Grande Torino, rappresentanti del calcio, rappresentanti della passione.